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LO STATUTO ALBERTINO E IL RISORGIMENTO, UNA ‘STORIA ATTUALE’

statuto-albertinodi Ciro Romano (Univ. “Federico II”)

IL RISORGIMENTO TRA STORIOGRAFIA E PASSIONI POLITICHE  .
Il termine risorgimento, utilizzato per la prima volta alla fine del Settecento per indicare quel periodo
della cultura e dell’arte che siamo soliti chiamare Rinascimento, per alcuni decenni a cavallo tra i secoli
XVIII e XIX si riferì esclusivamente a fatti letterari e culturali. Con V. Alfieri (1749-1803) il concetto si
allargò e venne a indicare la possibile e sperata rinascita dell’Italia, della nazione Italia nella sua globalità:
cultura, storia, politica; e lo stesso Alfieri viene definito da W. Maturi, uno dei più attenti storici dell'età risorgimentale, come il «primo intellettuale uomo libero del Risorgimento». La congiunzione tra Risorgimento letterario e Risorgimento politico divenne un tema costante di gran parte della cultura italiana dei primi decenni dell'Ottocento. Il tema si sviluppò e si definì progressivamente su due percorsi: da un lato il confronto tra il misero presente e il glorioso passato che può risorgere; dall'altro il recupero di momenti esaltanti della storia della penisola in cui essa fu al centro di grandi costruzioni politiche (l'età classica, l'età delle libertà comunali), fasi storiche a cui fare riferimento per il risorgimento di un grande passato in un'epoca nuova. In seguito il termine passò a indicare l'insieme dei processi politici, sociali, culturali da cui scaturirono l'indipendenza e l'unità nazionale. In questo senso si impadronirono del concetto tutte le forze politiche dell'Italia ottocentesca e cominciò fin dai primi decenni postunitari a costruirsi il mito retorico del
Risorgimento. Fu l'epoca dei ritratti agiografici dei protagonisti, dei monumenti, dei discorsi celebrativi, in
cui la ricostruzione delle vicende storiche diventava una retorica riconciliazione nazionale nella quale
sfumavano fino a scomparire i contrasti e le diverse posizioni. A fine Ottocento iniziò quindi qualcosa di
nuovo: l'interpretazione storica del Risorgimento come storia dell'unificazione nazionale e come formazione
di uno stato moderno.
Fin dall'inizio la discussione storiografica sul Risorgimento fu segnata dalle passioni politiche e
incentrata su tematiche già individuabili nelle opere dei protagonisti moderati (I. Balbo, G. La Farina, L.C.
Farini) e democratici (C. Cattaneo, G. Ferrari, C. Pisacane): il ruolo guida del Piemonte, la celebrazione
dell'opera dei Savoia o di quella di Cavour, l'influenza della Rivoluzione francese, quella delle riforme
settecentesche, il peso e il limite dell'intervento popolare. La lettura critica dell'opera di A. Oriani La lotta
politica in Italia (1892) apriva in direzione ancora diversa la polemica storiografica, arrivando fino alle
posizioni divergenti dei nazionalisti, che vedevano nelle lotte risorgimentali un presagio di futura grandezza
dell'Italia, e di P. Gobetti che, nella concezione della "conquista regia", trovava sostegno alla sua tesi del
Risorgimento come rivoluzione fallita. Un'ulteriore svolta interpretativa delle vicende risorgimentali veniva
indicata da A. Anzilotti (1885-1924) il quale sottolineava l'opportunità di uscire da una semplice narrazione
delle idee e dei fatti per cogliere in profondo quelle che chiamava le «vicende realistiche»: «Si è avuto –
scriveva – un interesse patriottico per certe figure, per gli avvenimenti militari, per le relazioni diplomatiche,

1 Per approfondimenti: Alberto Mario Banti. Il Risorgimento italiano. Roma-Bari, Laterza, 2004

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per gli episodi del nostro martirologio. La storia interiore, intesa come storia dei partiti, delle idee politiche,
degli ordinamenti amministrativi, delle finanze, della politica in generale è quasi un terreno vergine».
La nuova proposta storiografica era un tentativo di fondere le esigenze di ricerche attente allo
svolgersi del processo storico con quelle rivolte ad approfondire momenti di vita reale, concretamente
individuabili in tre direzioni: storia economica, storia dei partiti in rapporto alle classi, storia delle diverse
realtà provinciali. A una storiografia sempre più attenta allo studio delle condizioni economiche e sociali
(K.R. Greenfeld, B. King) se ne affiancava una più rivolta a indagare i fenomeni politici, avviata da G.
Salvemini e continuata da N. Rosselli, che apriva all'indagine del rapporto tra democrazia risorgimentale,
socialismo, movimento operaio. Una voce ancora diversa fu quella di A. Omodeo che, affermando i risultati
positivi raggiunti dalla lotta risorgimentale, auspicava studi di approfondimento sui protagonisti di quel
processo e sui loro ideali, evitando però una ricostruzione acritica e tale da porre sullo stesso piano uomini e
realtà profondamente diversi.
Proprio da una recensione di Omodeo allo scritto di C. Rosselli su C. Pisacane presero avvio le
riflessioni di A. Gramsci sul Risorgimento, sull'assenza nella democrazia risorgimentale di un partito guida o
meglio ancora di una «direzione giacobina» in grado di imprimere al movimento un carattere generale e
unitario e, attraverso l'attuazione di una riforma agraria, di dare ai democratici la gui-da delle masse
contadine. L'influenza delle analisi gramsciane sugli storici italiani, specie quelli di formazione marxista,
contribuì a una rifioritura, nel secondo dopoguerra, di studi sul Risorgimento. Gran parte del dibattito
storiografico sul Risorgimento apertosi in Italia nel secondo dopoguerra si è svolto intorno alle tesi di
Gramsci. Da un lato chi (F. Chabod, R. Romeo) obiettava che una rivoluzione agraria e giacobina avrebbe
provocato uno schieramento nettamente ostile all'unificazione da parte delle potenze europee, o come ancora
fosse estremamente difficile, per mancanza di risorse tecnico-agrarie, trasformare l'Italia meridionale in un
paese di democrazia rurale; dall'altro chi sosteneva che diversa strada avrebbe preso lo sviluppo del paese se
si fosse realizzata un'alleanza tra democratici e contadini senza intaccare il principio di proprietà privata,
anche cioè senza arrivare a una rivoluzione agraria.
Liberato dalle tante retoriche che lo avevano accompagnato per decenni, il Risorgimento è diventato
infine oggetto di indagini articolate volte non solo a cogliere il fatto militare e politico, ma a evidenziare i
caratteri, i problemi, le grandi questioni di fondo della società italiana dell'Ottocento. Sono fioriti studi sul
ruolo degli intellettuali e sulla formazione dell'opinione pubblica, sulla scuola, sulle condizioni di vita delle
classi popolari. E ancora medicina, igiene, demografia costituiscono settori su cui si sono avvertiti i
mutamenti di interessi storiografici e metodologici; per non trascurare gli studi di storia costituzionale e
amministrativa, quelli sull'emigrazione politica e, infine, quelli che ripropongono, sotto una luce
interpretativa nuova, vecchie questioni come quelle del ruolo del Piemonte nei confronti del processo di
unificazione. Anche il rapporto tra l'Italia e l'Europa è ora considerato non più esclusivamente in una
prospettiva politica o ideologica, ma nel quadro dei rapporti tra il processo di formazione dell'unità italiana e
le grandi trasformazioni in atto nel continente europeo. Il Risorgimento appare così come il processo

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specifico assunto in Italia dalla rivoluzione borghese, propria delle grandi potenze europee, quali Francia e
Inghilterra, pur conservando una serie di caratteri originali, primo fra tutti la specificità nazionale 2 .

Se queste sono le tesi Storiografiche e, oserei dire, terminologiche, cos’è , o cosa è stato,
storicamente il Risorgimento? Lunga è la tradizione idealistica/ideologica che ha interpretato il risorgimento
non già in maniera critica e storica, ma in maniera sentimentale vedendo in esso un compimento naturale e
quasi annunciato dell’intera storia italiana.
Nel 1861 si forma il Regno d’Italia dopo molti secoli di frammentazione e che raggiungerà il suo
compimento ultimo con l’annessione del Veneto (1865/66) del Lazio (1870) trovando pienamente termine
con la fine della I Guerra Mondiale. Il risorgimento, però, non è opera di un solo uomo (Cavour piuttosto che
Garibaldi) né è esclusivamente il frutto di fortunate congiunture internazionali; è l’esito di un processo
culturale e politico che prende avvio alla fine del XVIII secolo e che precisa i suoi caratteri nei primi
dell’Ottocento. L’influenza dell’Illuminismo, di Rousseau e le elaborazioni politiche della Rivoluzione
francese hanno dato vita a quel concetto di “nazione” intendente una comunità d’individui legati da tratti
comuni, e con il diritto di esprimersi all’interno di uno stato nazione creato per loro o in loro nome. A
sostegno della tesi di nazione come comunità, per molto tempo s’è addotta la italianità della cultura volgare
che, dal XV secolo, accomunava le espressioni letterarie della Penisola, unitamente alla condivisa
confessione religiosa.
Ma, è bene ricordarlo, nel 1861 gli italiofoni (quelli cha utilizzano l’italiano per comunicare
quotidianamente) non superano il 9,5 % della popolazione della Penisola. L’italianità della cultura, quindi, è
patrimonio di una ristretta elite, lo stesso Foscolo riconosce che, sebbene agli inizi dell’ottocento, un
milanese ed un bolognese non s’intenderebbero tra loro se non dopo giorni di mutuo insegnamento. E’,
quindi, più che obiettivo ritenere che l’apprezzamento di una tradizione culturale italiana era davvero
appannaggio di poche ed elette persone. La cattolicità, poi, della di per se non costituiva elemento coagulante
forte, in quanto essa costituiva, piuttosto, l’appartenenza ad una comunità sopranazionale e non direttamente
legata ad aspirazioni territoriali.
S’è spesso detto che le motivazioni economiche e la creazione di un mercato interno nazionale
fossero state determinanti per poter avviare la costruzione unitaria; ma anche in questo caso non è così. La
borghesia e il commercio della penisola pre-unitaria producevano prodotti che in minima parte erano
destinati ai mercati interni, piuttosto erano diretti verso Francia, Inghilterra, area austro-tedesca. Basti
pensare che le esportazione dal Regno delle Sue Sicilie erano solo per l’11,5 % dirette alla penisola italiana,
il resto era rivolto a mercati extra italiani, e lo stesso dicasi per le importazioni; l’8,5% delle importazioni nel
Regno duosiciliano era costituito da prodotti italiani, per il resto erano tutti prodotti extra italiani. Mi preme,
inoltre, precisare che la storiografia post-unitaria al fine di creare una vera e propria ideologia
risorgimentalista ha inteso denigrare gli stati pre-unitari ed in particolar modo il Regno delle Due Sicilie, il
più grande per estensione e popolazione di tutta la Penisola. E’ giusto ricordare che, a fronte di
2 A tal proposito cfr.: W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Einaudi, Torino 1962; E. Rota (a c. di), Nuove questioni di storia
del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, Giuffrè, Milano 1964; A. Lepre, Il Risorgimento, Loescher, Torino 1978.

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documentazioni d’archivio tutt’ora esistenti e consultabili, il Regno delle Due Sicilie non era in condizioni
né di arretratezza né di oscurantismo economico. Sicuramente era ai livelli degli altri stati pre-unitari, e
l’arretratezza non era del Regno duosiciliano ma dell’intera penisola italiana rispetto all’Europa
contemporanea; indirizzi di politica industriale ed economica di livello paragonabile a quello di altri stati
europei, sono ravvisabili in molti atti del Regno delle Due Sicilie.
Sicuramente, il movimento nazionale ha sollecitato gli interessi economici degli stati pre-unitari
verso la creazione di un mercato comune italiano, e non viceversa. Il risorgimento, invero, opera avendo di
fronte gravi handicap ambientali, di natura sociale, culturale e politica; e tuttavia sebbene all’inizio
dell’ottocento niente poteva farlo presagire, anzi sebbene tutti gli indicatori facessero propendere per il
contrario e in tutta la penisola (non solo nel troppo e ingiustamente denigrato regno delle due sicilie) gli
ideali risorgimentali venissero aspramente perseguitati e ritenuti pericolosamente eversivi, il movimento
risorgimentale raggiunge l’obiettivo di fornire la nazione Italia di uno stato unitario. Questo fa del
risorgimento un momento altamente significativo che non è giusto, né saggio, sottovalutare o ignorare. Il
risorgimento con tutte le sue difficoltà, i suoi innegabili limiti, le sue divisioni, i suoi eccessi, ma anche con
le sue realizzazioni e successi è il momento fondante della nazione Italia.
Altro aspetto importante sul Risorgimento è l’inizio dello stesso. A questo interrogativo storico, la
tradizione storiografica, ha dato tre linee interpretative principali. La prima intende far iniziare il
risorgimento nella prima metà del settecento donde sottolineare gli elementi di continuità che legano
l’elaborazione intellettuale settecentesca e l’esperienza del dispotismo illuminato soprattutto per le
componenti monarchiche e moderate. La seconda di queste linee interpretative, identifica il 1796 come data
d’origine individuando nell’arrivo dell’Armata d’Italia guidata da Napoleone e nel conseguente
stravolgimento politico istituzionale, il punto di svolta con la tradizione e la precedente. C’è, infine, l’ultima
interpretazione che colloca nel 1800 la data di inizio del processo risorgimentale, considerando, quindi,
molto importante e fondante il lascito che la riorganizzazione istituzionale napoleonica ha trasmesso alla
seguente storia d’Italia. Come già detto il risorgimento deve considerarsi come un processo politico-culturale
che si fonda sull’idea di nazione e che ha come scopo la costruzione di uno stato italiano; sicuramente il
momento storico in cui massimamente si parla di nazione e d’idea di nazione in senso “risorgimentale” è il
periodo del triennio giacobino (1796/99), periodo in cui, successivamente alla discesa di Napoleone in Italia,
iniziano a diffondersi tra le élite culturali e politiche della penisola le idee tipiche del successivo periodo
liberale.
Passato il ciclone napoleonico, col Congresso di Vienna (1814/15) 3 si riporta la situazione d’Europa,

3 Il Congresso di Vienna si tenne nella capitale dell'allora Impero austriaco, dal 1° ottobre 1814 al 9 giugno 1815. A parteciparvi
furono le principali nazioni europee, che tentarono così di dare un assetto all'Europa dopo l'avventura napoleonica. In realtà si cercò
di dare un assetto alle sole altre potenze, in quanto i termini di pace con la Francia erano già stati stipulati con il precedente trattato di
Parigi del 30 maggio 1814. Le discussioni continuarono malgrado il ritorno dell'ex imperatore Napoleone dall'esilio e la sua
riassunzione del potere in Francia nel marzo 1815, e l'atto supremo del Congresso fu firmato nove giorni prima della sua finale
disfatta nella battaglia di Waterloo (18 giugno 1815). Le decisioni prese dal Congresso seguirono due linee-guida per l'assegnazione
dei territori europei ai vari sovrani: il principio di equilibrio era stato concepito con lo scopo di non concedere ad alcun paese la
supremazia territoriale in Europa, ma, al contrario, di equilibrare le forze delle varie potenze europee, di modo che nessuna di queste
potesse prevaricare le altre: questo principio fu applicato ad esempio al Regno dei Paesi Bassi; col principio di legittimità invece si
intendeva riassegnare a quelli che il Congresso reputava i legittimi sovrani i loro Stati, come ad esempio accadde nella Francia post-

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o almeno si tenta, allo status quo ante. Se istituzionalmente, dinasticamente e politicamente il congresso di
Vienna, attuò dei principi guida quali l’equilibro, il legittimismo e la politica del concerto delle potenze
europee; intellettualmente le idee rivoluzionarie non vennero meno, ma anzi si acuirono ed estremizzarono.
Dopo il Congresso di Vienna , l'influenza francese nella vita politica italiana lasciò i suoi segni attraverso la
circolazione delle idee e la diffusione di gazzette letterarie; fiorirono infatti salotti borghesi che, sotto il
pretesto letterario, crearono veri e propri club di tipo anglosassone, che si prestarono a coprire società
segrete ; in tale quadro gli esuli italiani, come Antonio Panizzi , s'impegnavano a stabilire contatti con le
potenze straniere interessate a risolvere il problema italiano. In tale panorama patriottico rivoluzionario, una
delle prime associazioni segrete fu quella dei Carbonari . Nel 1814 questa società segreta organizzò dei moti
rivoluzionari a Napoli , che culminarono con la presa della città nel 1820 , poi persa ad opera dell' Austria ,
intervenuta con la Santa Alleanza – una sorta di polizia internazionale tra Austria , Prussia e Russia – per
tutelare i propri interessi egemonici in nome dei principi dell' ordine internazionale e dell'equilibrio . Nei moti
liberali che si verificarono a Torino ( 1821 ) videro protagonisti uomini simboli del nostro Risorgimento come
Santorre di Santarosa , Silvio Pellico ,e nei moti milanesi rappresentativa del martirio patriottico fu la triste
sorte del conte Federico Confalonieri . Nel programma rivoluzionario una figura di primo piano fu quella di
Giuseppe Mazzini . Nato a Genova nel 1805 , divenne membro della Carboneria nel 1830 . La sua attività di
ideologo e organizzatore lo costrinse a lasciare l' Italia nel 1831 per fuggire a Marsiglia , dove fondò la
Giovine Italia , un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la costituzione di uno stato unitario,
da inserire in una più ampia prospettiva federale europea. Nel cosiddetto biennio delle riforme ( 1846 – 1847 ),
a seguito del fallimento dei moti rivoluzionari mazziniani , presero vigore progetti politici di liberali
moderati, tra cui spiccano Massimo d'Azeglio e Vincenzo Gioberti , i quali, sentendo soprattutto la necessità
di un mercato unitario come premessa essenziale per un competitivo sviluppo economico italiano,
avanzarono programmi riformisti per una futura unità italiana nella forma accentrata o federativa. Nacque,
così, il movimento neoguelfo che riscosse successo presso l'opinione pubblica in coincidenza con l'elezione
di papa Pio IX ritenuto inizialmente un "liberale" .

Questa è la cornice storica, ideologica e fattuale in cui s’inserisce la concessione da parte di Re Carlo
Alberto di Sardegna 4 ( Torino , 2 ottobre 1798 – Oporto , 28 luglio 1849 ), dello Statuto Albertino che resterà,
rivoluzionaria, a capo della quale venne nominato sovrano Luigi XVIII, successore di Luigi XVI; in questo modo veniva ripristinata
la monarchia, anche se in questo caso si trattava di una monarchia costituzionale.
4 Figlio di Carlo Emanuele e Maria Cristina Albertina di Sassonia-Curlandia, divenne Re di Sardegna nel 1831 a seguito della morte
senza eredi di Carlo Felice. Ricevette la prima educazione a Ginevra ed in seguito a Parigi dove subì l'influsso delle idee della
Rivoluzione. Nominato sottotenente dei dragoni da Napoleone I nel 1814, rientrò nei domini della sua famiglia dopo il Congresso di
Vienna nel 1815 che lo riconobbe principe ereditario. Al suo rientro a Torino, dopo il 1814, dovette "subire" l'educazione di due
nuovi precettori, Filippo Grimaldi del Poggetto e poi Policarpo Cacherano d'Osasco di Cantarana, per scrollarsi di dosso le pericolose
idee napoleoniche. Nel 1817 sposò Maria Teresa di Toscana dalla quale ebbe tre figli: Vittorio Emanuele (1820 – 1878), Maria
Cristina (1826-1827), e Ferdinando, (1822-1855), duca di Genova, padre della futura regina Margherita. Assunse un ruolo di primaria
importanza nel 1821 quando in seguito all'abdicazione di Vittorio Emanuele I, divenne reggente per conto del nuovo re Carlo Felice
in quel momento a Modena. In questa occasione i liberali italiani che avevano promosso i moti nella capitale piemontese lo
convinsero ad emanare, previa accettazione del sovrano, lo statuto che faceva diventare il regno di Sardegna una monarchia
costituzionale sul modello di quella spagnola. Un anno prima era nato a Torino il primo figlio Vittorio Emanuele che diventerà re
d'Italia. Disconosciuto il suo operato dal nuovo monarca fu costretto a raggiungere le truppe fedeli a Carlo Felice a Novara (Se avete

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poi, carta fondamentale dello Stato fino al 1946. Volutamente non mi soffermo sulle vicende biografiche che
hanno visto Carlo Alberto protagonista, né mi soffermo sulle campagne militari condotte sotto il suo regno.
Intendo, invece, soffermarmi sullo Statuto Albertino e proporre una riflessione di carattere storico-
istituzionale, non evitando anche la comparazione con episodi coevi nel resto dell’Europa.

LO STATUTO ALBERTINO, UN PUNTO DI VISTA STORICO-ISTITUZIONALE 5 .
Alla vigilia della nascita dello Statuto, ci troviamo, in Piemonte, di fronte ad un regime dalla perdurante e
marcata atmosfera assolutistica ma in via di riforma 6 , e abbastanza vicino al modello di monarchia
‘consultiva’ o amministrativa; un modello che avrebbe consentito trasformazioni graduali e non imposte o
dalla volontà del singolo sovrano o dalla opinione pubblica. Il posto centrale era occupato del monarca, Capo
dello Stato, comandante delle forze armate, fulcro della politica estera e vertice dell’amministrazione. Il
sistema giudiziario era, articolato su due livelli: quello dei Tribunali di Prefettura presenti in ogni provincia,
e quello delle corti d’appello istituite nel 1847; al re restava il diritto di grazia. Il governo, invece, era
costituito da singoli ministri di nomina regia, i quali si riunivano periodicamente sotto la presidenza del

ancora una goccia di sangue reale sabaudo dovete partire per Novara e attendere ordini) e in seguito a rifugiarsi presso il suocero
Ferdinando III di Toscana dopo che il re di Sardegna aveva rifiutato di incontrarlo. In questa occasione nacque la leggenda della
sostituzione dell'erede Vittorio Emanuele (secondo la leggenda morto in un incendio) con il figlio di un macellaio fiorentino. In
questo modo le malelingue infatti spiegano la differenza di statura tra i due sovrani (Carlo Alberto era alto 2 metri) e l'erede e
soprattutto la differenza di carattere tra il padre timido e riservato ed il figlio molto piu' dedito ai piaceri della vita. Qualche tempo
dopo fu costretto a lasciare l'Italia e per assecondare la politica del Metternich combatté nella battaglia del Trocadero (1823) in
Spagna al fianco della spedizione francese colà intervenuta per soffocare la rivoluzione liberale. Ciò che alienò a Carlo Alberto le
simpatie dei suoi amici precedenti, ma servì per ottenere la successione al trono con il favore austriaco (anche a seguito dell'impegno
a non modificare le istituzioni politiche in essere). Divenuto re di Sardegna si dedicò al riordinamento dello Stato, risanando le
finanze, promuovendo lo sviluppo economico del Regno, riorganizzando l'esercito e dando impulso alle riforme amministrative.
Inoltre stipulò un'alleanza con l'Austria. Creò una Corte sontuosa, protesse gli artisti, fece erigere monumenti alla memoria dei suoi
predecessori, rinnovò gli Ordini cavallereschi, fondò l'Ordine Civile dei Savoia e aiutò la Chiesa. Nei confronti dei movimenti
rivoluzionari e libertari condusse una severa politica reazionaria e represse duramente la cospirazione della Giovine Italia (1833)
firmando numerose condanne a morte. In un primo tempo quindi tenne un atteggiamento conservatore e filo-clericale simile a quello
del suo predecessore facendo svanire le speranze di quanti credevano in lui ma dal 1843 assunse un atteggiamento più liberale
aprendo il Piemonte ad un cauto riformismo sotto la spinta di personalità come Vincenzo Gioberti e Massimo d'Azeglio. Iniziò a
promuovere una serie di riforme miranti a rafforzare lo stato e a svecchiarne le strutture: riformò i codici, abolì i diritti feudali, diede
impulso all'agricoltura e al commercio, permise le sviluppo di una vita politica in Piemonte, facilitò i congressi scientifici, fondò la
biblioteca reale, il medagliere, la Galleria delle Armi (una collezione di armature dei secoli precedenti), la pinacoteca, l'accademia
Albertina delle Belle Arti e la Deputazione reale della storia patria. Inoltre nel 1846 costituì la Corte di Cassazione. Questo
atteggiamento riformista lo portò il 4 marzo del 1848 ad emanare a seguito dei moti scoppiati in tutta la penisola e sul continente, lo
statuto (sulla base di quelli belga e francese) che porta il suo nome (Statuto Albertino) e che rimase in vigore in tutta Italia fino
all'emanazione della nuova costituzione repubblicana del 1948. In questa stessa data fu adottato come bandiera il tricolore italiano
che salvo l'eliminazione dello scudo sabaudo resta la bandiera dello stato italiano. Il suo nome è legato anche alla infruttuosa
campagna del 1848-49 contro gli austriaci. In questa occasione l'esercito del piccolo Regno di Sardegna affiancato da un numero
notevole di volontari dichiarò guerra all'Impero Austriaco per liberare il Lombardo-Veneto a seguito delle rivolte scoppiate in quei
territori. Decise infatti di prestare soccorso ai milanesi insorti durante le Cinque giornate di Milano (dal 18 al 22 marzo del 1848) e il
24 marzo dichiarava guerra all'Austria. Il re entrava quindi a Milano allontannado quindi gli austriaci e proclamando un plebiscito
per l'annessione al Regno di Sardegna che lo avrebbe elevato per qualche tempo anche a signore di Milano. Questa guerra sarebbe
passata alla storia con il nome di Prima guerra d'Indipendenza. Dopo una prima fase di vittorie e la conquista delle importanti
piazzeforti di Pastrengo (Carica di Pastrengo), Peschiera e Goito, la crescente ostilità del Papa e degli altri monarchi italiani
contribuirono alla disfatta dell'esercito piemontese, che non più sostenuto se non da pochi volontari, venne sconfitto a Custoza il 25
luglio 1848. Il 5 agosto Carlo Alberto abbandonò Milano e la Lombardia non prima di aver ricevuto qualche pallottola alla finestra
sparata da parte di un cittadino milanese. Il successivo 9 agosto firmò l'armistizio di Salasco. Un anno più tardi, Carlo Alberto
intimorito dal crescente peso dei repubblicani, riprese le ostilità ma l'esercito del maresciallo Radetzky sconfisse definitivamente
quello piemontese a Novara il 23 marzo. La sera stessa, Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele e lasciò l'Italia
verso l'esilio di Oporto sotto mentite spoglie. Morì dopo pochi mesi nel luglio dello stesso anno per il dolore. Il suo corpo riposa nella
basilica di Superga a Torino.
5 Per approfondimenti: Paolo Colombo, Storia Costituzionale della Monarchia Italiana, Roma-Bari, Laterza, 2001
6 F. Mazzonis, La monarchia sabauda, in U. Levra ( a cura di), Il Piemonte alle soglie del 1848, Carocci, Roma 1999

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monarca, mentre non esistevano vere e proprio istituzioni rappresentative-elettorali; ma tale vuoto sarà
colmato proprio dalla concessione dello Statuto.
Stando così le cose, Carlo Alberto tentava di aggirare il problema della costituzione con la
concessione di ordinamenti via via rinnovati; ma la situazione degli inizi del 1848 non gli furono favorevoli
in quanto rivolte e più pressanti richiesti venivano mosse alla corona. Le, seppure deboli, aperture anziché
placare gli animi, ne accesero maggiori pretese. Genova fu la prima zona, in territorio sabaudo, a conoscere
eventi insurrezionali a cui Carlo Alberto fu ostile ed invitò i suoi ministri ad una forte repressione. Però
alcuni monarchi italiani si dimostrarono più malleabili di lui, il 31 gennaio del 1848 Ferdinando II di
Borbone concesse la costituzione ritenendo più utile cedere alla pressioni liberali che non acuirne gli
scontenti. In pratica la protezione dello status quo cadde.
Carlo Alberto, quindi, convocò due riunioni in cui chiese consiglio ai propri ministri (il 3 ed il 7
febbraio del 1848). In entrambe queste riunioni i Ministri di Carlo Alberto furono convinti di dover conceder
una costituzione convinti che l’accelerazione improvvisa degli avvenimenti e lo stato di disordine in cui ci si
trovava avrebbero potuto far perdere l’occasione di giocare d’anticipo nel poter dettare le condizioni,
piuttosto che vedersele imposte dagli eventi. I ministri, però, sono concordi sul carattere di “magnanimità”
dell’azione; la Costituzione deve esser una concessione emanata dal Sovrano. Venne, inoltre, espresso
opposizione verso una politica repressiva e si elencarono al Re i due vantaggi diretti che avrebbe potuti
ottenere: consentire di modellare la costituzione il più possibile e aggregare intorno a Casa Savoia un enorme
consenso anche fuori dal Piemonte 7 . Dal giorno successivo, i ministri si misero al lavoro sugli articoli di
quello che sarebbe stato lo Statuto 8 e dopo meno di un mese, il 4 marzo 1848 9 viene pubblicato subito dopo
il proclama di Carlo Alberto che lo preannunciava, e mentre si festeggiava arrivò la notizia della rivoluzione
parigina contro Luigi Filippo: irrompeva l’Europa sulla scena piemontese.
Dalle vicende militari è chiaro come i regno sabaudo reciti, sempre più, in quegli anni una parte non
secondaria anche al di fuori dei propri confini; ed attenendosi alla stretto campo della storia istituzionale, è
palese come il contatto con il resto dell’Europa fosse già avvenuto proprio nelle fasi preliminari dello
Statuto. I costituenti piemontesi, infatti, prendono le mosse dalla lettura delle costituzioni già esistenti e,
escludendo quelle rivoluzionarie francesi e napoleoniche, le costituzioni “modello” furono quelle francesi del
1814 e 1830 e quella belga del 1831. Storicamente, e non solo, è plausibilissimo che i costituzionalisti
piemontesi si avvalgano di costituzioni di altri paesi (per di più scritte in francese, idioma ampiamente
parlato e compreso nel Piemonte pre-unitario), e da esse estrapolano i ‘mattoni’ per costruire un ‘edificio’
costituzionale il più vicino possibile alla monarchia pre-costituzionale.

7 Il Ministro Borrelli, ministro degli Interni, affermò che “la costituzione è un male, ma è il minore e serve a prevenirne di peggiori”
mentre il conte Avet, ministro di Giustizia, disse “occorre conservare alla Corona la più ampia autonomia compatibile col sistema
rappresentativo”, in E. Crosa, La concessione dello Statuto, Carlo Alberto e il ministro Borrelli “redattore” dello Statuto. Istituto
Giuridico della Regia Università di Torino, Torino 1936.
8 La parola costituzione non venne utilizzata granché nell’800 e si preferiva il termine “Carta” per indicare le costituzioni: ciò perché
il termine costituzione evocava gli spettri della rivoluzione francese, la degenerazione giacobina, la frattura con l’ancien regime.
Ecco perché si utilizzo il termine ‘Statuto’, oltre che per il motivo rievocativo dell’antica tradizione comunale medievale italiana.
9 Carlo Alberto aveva giurato di salvaguardare immutate le leggi e le basi fondamentali della monarchica, e al momento decisivo
–prima della promulgazione dello Statuto- si dovette convocare l’arcivescovo di Vercelli per sciogliere Carlo Alberto dal giuramento,
consentendogli di concedere lo Statuto con la coscienza a posto.

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I punti salienti dei dettami dello statuto riguardavano: la persone del re, le prerogative esecutive,
legislative e giudiziarie, le prerogative in campo onorifico e la dotazione della Real casa piemontese.
La persona del re.
Lo statuto recita all’art.2 che lo ‘stato è retto da un governo monarchico rappresentativo’, e si aggiunge che
‘il trono è ereditario secondo la legge salica’. Se riguardo al secondo punto testè citato non dovrebbero
esservi dubbi sull’interpretazione poiché è chiaro che la successione al trono, e quindi a Capo della Real
Casa, era regolata secondo l’insieme di regole tradizionali che assicuravano la successione del più diretto
discendente maschio ed escludevano la successione femminile; riguardo al primo dei passi citati, intenderei
soffermarmi. E’, infatti, l’eplicitazione essenziale dell’esistenza di due pilastri ineliminabili della struttura
istituzionale, la corona da una parte e le camere rappresentative (Camera e Senato) dall’altra. Ma lo Statuto
dice anche che l’iniziativa legislativa è esercitata collegialmente dal monarca e dalle camere; in questo modo
si specifica che il regime che si sta ponendo in essere è innanzitutto monarchico, e che le prerogative regie si
estendono anche al potere legislativo, che in questo modo non è monopolio solo delle assemblee
rappresentative.
E nel testo statutario sono molti gli articoli che si soffermano sulla figura del re. L’art.4 dichiara la
persona del re ‘sacra ed inviolabile’. Questa visione sacrale del potere, e del re agli occhi dei costituzionalisti
e liberali dell’800 positivista a post-rivoluzionario, sembrava un inutile detrito storico e si accusa
d’inconsistenza giuridica e formale tale dichiarazione. Ma, bisogna osservare, che il retaggio assolutistico, e
la forte volontà di mediazione con il passato regime, era un elemento non secondario negli intenti dei
redattori, non solo dello Statuto ma di gran parte delle Carte costituzionali del tempo. Se quindi,
tecnicamente, nell’800 come oggi parlare di sacralità della persona del re crea sensazioni romantiche e
medievaleggianti 10 , da un punto di vista meramente pratico e formalistico tale dettame statutario pone due
fondamentali considerazioni.
In primo luogo bisogna sottolineare che quando ci si rapporta con la Corona, si ha a che fare con un
mondo parallelo rispetto a quello del diritto positivo: un mondo fatto di tradizioni e consuetudini che è retto
da concetti e fenomeni (morale, equità, cerimoniale, etichetta, simbologia) difficilmente compatibile con i
dettami costituizional/razionalistici. L’elemento “Re” quindi è da intendersi di due parti: l’Istituzione
costituzionale (la Corona) e la persona (re). L’inviolabilità del re è un altro elemento non secondario.
Essendo inviolabile non può mai esser messo in discussione, né tanto meno può esser ritenuto responsabile di
atti politici; ma poiché il re di atti politici deve compierne, e non pochi, bisognava trovare l’espediente
perché la sua inviolabilità non risentisse degli atti politici emessi. Viene, così, introdotto l’artifizio della
cosiddetta ‘copertura ministeriale’, tramite cui ogni atto regio viene controfirmato dal ministro competente
che ne diviene l’unico responsabile.
Per entrare pienamente i possesso delle proprie prerogative, il re deve aver compiuto la maggiore età,
fissata a 18 anni (art. 11) anziché a 21 come i comuni cittadini. Qualora il re sia minorenne, lo Statuto
prevede regole precise per la reggenza che, comunque, spetterà sempre al parente più prossimo nell’ordine di
10 A questo proposito cito, a puro titolo informativo, il testo di M. Bloch, I Re taumaturghi, in cui il fine medievista francese affronta
proprio il tema della sacralità del re nell’immaginario medievale offrendo, anche, un’utile interpretazione sulle epoche successive.

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successione. L’art.16, invece, prevede che il principe ereditario, in caso d’impossibilità fisica del monarca a
regnare, possa sostituire il regnante prima della sua morte; però, nella prassi istituzionale la sostituzione del
regnante (per impossibilità fisica, per temporanea impossibilità, per garantire continuità istituzionale in
momenti gravi) viene affidata all’ istituto della Luogotenenza.
Le prerogative esecutive, legislative e giudiziarie.
Gli art.5, 6 e 65 sono quelli in cui si fanno salienti, maggiormente, i punti caratteristici dell’iniziativa
esecutiva del re. Questi articoli recitano “al re solo appartiene il potere esecutivo…è capo supremo dello
Stato…il re nomina e revoca i ministri”, dalla lettura di questi dettami statutari subito possiamo muovere
alcune considerazione.
Innanzitutto che il re, in quanto capo supremo, è il Comandante delle Forze Armate, ed ha libertà
d’iniziativa in ambito diplomatico. E’ sua prerogativa, infatti, condurre i rapporti internazionali e stipulare i
trattati con la clausola che se dovessero prevedere cambiamenti territoriali e oneri economici, deve ottenere
l’approvazione delle Camere. Il legame con le forze armate, di lunga tradizione per Casa Savoia e
continuato sino agli ultimi momenti di permanenza su suolo italiano di un Re sabaudo, è un legame dal
duplice aspetto: legittimistico ed istituzionale. Legittimistico in quanto è proprio dall’impegno bellico che
deriva il potere dei re ed è nei ranghi dell’esercito che si radica un solido filone di consenso per la famiglia
reale. Istituzionale poiché il re verrà percepito e si presenterà come capo delle forze armate, esercitando
comunque un influsso molto condizionante nel campo militare; com’anche, del resto, in ambito
internazionale dove raramente resterà inascoltata la parola del Re.
Sulla nomina e revoca dei ministri, invece, si pongono agli occhi degli storici (e non solo) vari
interrogativi. Essendo l’espressione, già citata, molto laconica non si riesce a capire su quali basi il re può
nominare o revocare ministri, quali sono i criteri di valutazione politica: il Re deve tenere conto di
indicazioni delle Camere o piuttosto deve basarsi sugli orientamenti del corpo elettorale? Lo statuto, poi,
prevede i ministri, ma non prevede un loro collegio (Consiglio dei ministri) né un loro ‘legale
rappresentante’ (un presidente del Consiglio); inoltre all’art.67 viene specificato che i Ministri sono
responsabili, ma non si dice se verso il re o il Parlamento. Questi dubbi, sia storici che istituzionali, sono
riconducibili al fatto che – come già detto – gli estensori dello Statuto erano comunque figli della tradizione
di ancien regime e quindi avevano più preoccupazione di ‘mediare’ tra il passato e il nuovo, ancora molto
nebuloso e incerto.
Gli art.7, 9 e 10, sono quelli in cui viene più direttamente esplicata la funzione legislativa. Il re non
discute né elaboralo le leggi, ma interviene all’inizio, tramite il diritto di iniziativa, o alla fine dell’iter
parlamentare sancendo e promulgando i testi legislativi. Per quanto riguarda il diritto di inziativa legislativa è
bene osservare che la Corona, per non esser sottoposta alle critiche dell’opposizione parlamentare e per
evitare ogni strumentalizzazione di parte, si è sempre limitata ad emanare decreti di autorizzazione di
proposte legislative mosse dal governo. Sancire e promulgare un testo, invece, sono quelle prerogative che la
Corona ha sempre esercitato. Il diritto di sancire una legge ha, insito, anche il diritto di veto verso una legge;
in vero solo in due circostanze il re ha rifiutato la promulgazione nel 1869 (rifiutando la legge di concessione

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di cittadinanza italiana anche agli abitanti non ancora annessi allo stato unitario) e nel 1891 rifiutando dei
trattati commerciali. Ma non è pertinente ritenere la promulgazione un atto di mera forma, in quanto la
possibilità del rifiuto regio, sempre incombente, rappresentava una pesante pressione sui politici e
sull’opinione pubblica ed era un elemento di scambio dialettico nelle trattative tra governo e Camere 11 . Con
la promulgazione il re sancisce che la legge è frutto della volontà parlamentare e che è approvata dalla
Corona come rispondente agli interessi generali.
Tra gli altri poteri, d’ambito legislativo, alla corona spetta la convocazione annuale dell’assemblea
parlamentare, e il potere di scioglierla o di prorogarne (de facto sospendere) le attività 12 ,è questa un’arma
molto importante poiché spesso consentirà alla Corona di essere la componente centrale del meccanismo per
la risoluzione delle eventuali crisi politiche tra Gabinetto e Parlamento.
C’è poi l’art. 33 con cui viene riservata al re li diritto di nominare a vita i membri del senato del
regno, non di numero limitato, da scegliere entro ventuno categorie di notabili 13 , categoria volutamente
abbastanza ampie per lasciare margine all’iniziativa della Corona. In questo modo il Senato sarà sempre un
elemento di profanazione monarchica e strettamente legato alla volontà regia e governativa (ricordiamoci che
il governo è comunque nominato dal Sovrano). Proprio per questo motivo si dà avvio alla pratica delle
‘infornate’ cioè della nomine ad hoc di nuovi senatori per indirizzare in segno governativo la maggioranza
politica senatoriale. Tale pratica non deve essere necessariamente interpretata negativamente, poiché è
questo un modo che consente al re e ai ministri di bilanciare ulteriormente il peso politico tra le due camere e
tra queste e il Governo. Il re, inoltre, nomina il Presidente del Senato che resta in carica per molto tempo e
non decade col decadere del Parlamento, risulta quindi essere una carica dalla forte autorevolezza, oltre che
esser un raccordo diretto con la Corona.
Il Senato, però, poteva rifiutarsi di accettare coloro che gli sembravano inaccettabili ad entrare a far
parte della Camera Alta, configgendo così con le prerogative regie. Ma questi episodi di contrasti 14 si
riversarono sempre sulla compagine governativa e mai verso la Corona, a conferma della sua inattaccabilità.
E comunque la simbiosi tra dinastia e sento è molto forte, poiché l’art.34 dello statuto precede che i “principi
della famiglia reale, siano di diritto parte del Senato”; è un segno, questo, di contiguità che non può esser
trascurato e che si esprime in molte varianti.
Le prerogative d’ambito giudiziario, invero, sono limitate all’art. 8 in cui si affida al re solo il diritto
di concedere grazie e commutare le pene. Un diritto/potere molto importante poiché ha nel Sovrano l’unica

11 Ad esempio nel 1852 e nel 1855 le leggi sull’introduzione del matrimonio civile e sulla soppressione degli Ordini religiosi,
naufragarono proprio per la resistenza della Corona che minacciava, qualora fossero state approvate dal Parlamento, di esercitare il
veto regio.
12 Ricordo, a tal proposito, che dalla I alla VIII legislatura i parlamento fu chiuso per circa i 2/3 del tempo, cioè in 17 anni 11 furono
di inattività e 6 di lavoro ( cfr. R.Martucci, L’invenzione dell’Italia Unita.).
13Per quanto possibile si tenta di sintetizzare le ventuno categorie: Arcivescovi e Vescovi dello Stato; i presidenti della Camera dei
deputati; i deputati dopo tre legislature o sei anni di servizio; i ministri; gli ambasciatori; i presidenti, l’avvocato generale, il
procuratore generale e i consiglieri del magistrato di Cassazione della Camera dei conti; i magistrati d’appello (ivi inclusi i presidenti,
i presidenti di classe, gli avvocati generali o fiscali generali delle corti d’appello); gli ufficiali generali di terra e mare; i consiglieri di
Stato; i membri dei consigli di divisione; gli intendenti generali; i membri della regia Accademia delle scienze; i membri ordinari del
Consiglio d’Istruzione pubblica; coloro che abbiano illustrato la patria con servizi ed opere eminenti; le persone con un censo peri a
tre mila lire per almeno tre anni.
14 E’, ad esempio, il caso del 1892 durante Gabinetto Giolitti, quando i senatori non ritenevano degni di tale carica sei persone, che il
Re nominò per compiacere la volontà ministeriale.

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forma normativa e promana direttamente da esso e non da volontà ministeriali e/o parlamentari. Possiamo,
senza tema di smentita, affermare che questo diritto di grazia è una reinterpretazione in termini
costituzionalistici dello ius dispensandi 15 di antico regime.
Sull’istituto della grazia s’è molto discusso in quanto, oggettivamente, rappresentava un elemento di
eccentricità rispetto all’edificio costituzionale ed istituzionale impiantato dallo Statuto. L’eccezionalità della
grazia va però intesa come massimo livello di grado di giustizia volto a salvaguardare con il senso di equità
un interesse superiore e non contingente, stappando alla discussione partigiana e politica ogni iniziativa di
clemenza dal forte impatto propagandistico. La stessa grazia, inoltre, può esser concessa solo dopo che l’iter
giudiziario s’è concluso, e dopo che la sentenza è passata in giudicato; il diritto di grazia, quindi, non
propriamente interviene ed influisce sul potere giudiziario, quanto piuttosto è un carattere di eccezionalità
(sicuramente non riconducibile alle teorie liberali e costituzionali) che interviene solo dopo che la
magistratura ha adempiuto ai propri compiti istituzionali.
Fino al 1865 la grazie veniva concessa dal re senza alcuna intermediazione ministeriale, donde
evitare il carattere propagandistico e di parte, ed è solo da quell’anno che il ministro della Giustizia viene
coinvolto nell’esercizio di tale diritto 16 .
Le prerogative in campo onorifico.
Gli articoli 78, 79 ed 80 regolano il campo delle onorificenze e dei titoli nobiliari 17 . Gli Ordini cavallereschi
vantano un tradizione secolare e fortemente intrecciata con quella dinastica. La concessione delle
onorificenze cavalleresche è ovviamente legata agli Ordini Cavallereschi cui dette onorificenze si
riferiscono; questi Ordini sono, è chiaro che mi riferisco ai soli ordini già esistenti al momento
dell’estensione dello Statuto: l’Ordine della SS. Annunziata e dei Santi Maurizio e Lazzaro (i più antichi e
gli Ordini propriamente dinastici), l’Ordine Militare di Savoia e l’Ordine civile di Savoia, 18 di detti Ordini il
re era il Gran Maestro, e disponeva circa l’organizzazione e le finalità degli stessi.
Il Re quindi ha una duplice funzione, quella di poter creare gli Ordini, propriamente funzione
politica, e quella di gestirli che è propriamente una funzione amministrativa. Sebbene in queste materie il re
fosse autonomo, spesso il Parlamento tentava di influenzare il re nella gestione, o di avocare a se determinate
attribuzioni. Ma se sorge il dubbio, legittimo, su chi realmente ponesse in atto la concessione di nuove
onorificenze (se un Ministro piuttosto che un consiglio dei Ministri o il re direttamente) è fuor di dubbio che
le concessioni motu proprio da parte dell’autorità regia sono molto frequenti ed in questo ben poca influenza
15 Il diritto in base al quale il monarca assoluto poteva dispensare alcuni soggetti dal rispetto della legge anche retroattivamente.
16 Tra il 1880 e 1897 su 228.346 domande di grazia, ne vengono accolte 21.050 (il 9,2%), e tra il 1905-1907 e dopo la prima guerra
mondiale la percentuale salirà, addirittura, al 30%.
17 Art.78 “Gli Ordini cavallereschi ora esistenti sono mantenuti con le loro dotazioni…il re può creare nuovi Ordini e stabilirne gli
Statuti”; art.79 “I titoli di nobiltà sono mantenuti a chi ne ha diritto. Il re può concederne di nuovi”; art.80 “Niuno può ricevere
decorazioni, titoli o pensioni da una potenza estera senza l’autorizzazione del re”.
18 L’Ordine Supremo della SS. Annunziata (Ordine di Collare) fu fondato nel 1362 da Amedeo VI di Savoia, l’Ordine dei SS.
Maurizio e Lazzaro ( dapprincipio di San Maurizio) fu fondato nel 1434 da Amedeo VIII di Savoia e unito nel 1572 da Papa
Gregorio XIII all’Ordine di San Lazzaro; l’Ordine della SS. Annunziata e l’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro sono gli Ordini
dinastici di Casa Savoia, indipendenti dalla sovranità territoriale. L’Ordine Militare di Savoia fu istituto nel 1815 da Vittorio Emule I,
mentre l’Ordine Civile di Savoia fu istituito da Carlo Alberto nel 1831. Successivamente vennero istituiti altri Ordini Cavallereschi
per i quali valevano le norme dello Statuto:l’Ordine della Corona d’Italia istituito nel 1868 da Vittorio Emanuele II in occasione
dell’acquisizione del Veneto; l’Ordine al merito agrario, industriale e commerciale istituito da Vittorio Emanuele III nel 1901;
l’Ordine coloniale della Stella d’Italia istituito da Vittorio Emanuele III nel 1914; l’Ordine dell’Aquila Romana istituito da Vittorio
Emanuele III nel 1942.

12

hanno le dialettiche politiche o ministeriali, quanto piuttosto gli ambienti più strettamente vicini alla Casa
Reale.
Potrebbe sembrare pedante e marginale la notazione delle prerogative onorifiche, ma a mio avviso
non lo è e proprio per questo ho voluto inserirne un breve passaggio. Non elemento di poco conto poiché
proprio tramite la concessione di onorificenza a centinaia di persone, quasi sempre politicamente o
economicamente influenti, la Corona riusciva a crearsi un importante nucleo di persone a lei grati e, in certo
qual modo, fidati.
La Real Casa e la lista civile.
Il nuovo assetto statutario costituzionale prevede anche (Artt. 19-20 e 21) l’istituzione della Real Casa e della
lista civile. La prima volta a sovrintendere ai beni mobili e immobili della Corona, oltre che gestire
direttamente gli aspetti amministrativi e cerimoniali di pertinenza del Re, la lista civile, invece, era
l’appannaggio finanziario che veniva corrisposto al Re, e poi ai principi reali una volta maggiorenni ed alla
regina vedova, la cui gestione era di diretta competenza regia. E’ qui importante sottolineare la differenza tra
erario pubblico e finanze private del re, differenza in cui rientrano anche i beni immobili; solo alcuni dei
palazzi reali piemontesi, e poi italiani dopo l’Unità, rientravano nella proprietà privata della famiglia reale.
Molti di essi, infatti, erano del demanio statale ad esso alienati con decreti specifici proprio dal re 19 . A
sovrintendere a tutte le incombenze derivanti dall’amministrazione della real casa vi erano varie figure, e un
nutrito organico, e le due figure principali erano il Prefetto di Palazzo cui erano affidati i compiti cerimoniali,
e il sovrintendente della lista civile cui erano affidati i compiti di gestione amministrativa del patrimonio.
Quest’ultima figura, però da subito iniziò ad avere preminenza su quella del Prefetto di Palazzo e nel 1856,
Vittorio Emanuele II, muta il nome del sovrintendente della lista civile in Ministro della Real Casa. Carica,
quello di Ministro della Real Casa, che da dopo l’Unità occupo un ruolo non secondario nella vita della
Corona, ma soprattutto ebbe un ruolo importante nel mediare i contatti della Real Casa anche durante l’esilio
dell’ultimo Re d’Italia Umberto II.

Una rapida carrellata, che non ha la presunzione di esaurire la dovizia di elementi che potrebbero
essere approfonditi, ma che tenta di creare un’immagine globale dal punto di vista storico-istituzionale donde
desumere i non pochi elementi di continuità e di attualità dello Statuto. Ad un’approfondita analisi di storia
delle istituzioni la conclamata originalità della repubblica post-bellica rispetto alle istituzioni che l’hanno
preceduta è tutt’altro che dimostrata. Ci sono, ad esempio, chiari segnali di filiazioni diretta di alcune delle
istituzioni repubblicane dal precedente monarchico: si pensi al ministero della Real Casa, che per molti
aspetti si è tramutato nella Segreteria generale della Presidenza della Repubblica. Ma soprattutto nell’insieme
delle prerogativa presidenziali non è difficile ritrovare le prorogati regie. Negli esempi poco sopra citati,
infatti, è pressoché naturale in confronto con le attuali competenze del Capo dello Stato verso Parlamento e
Ministri. Certo non esiste più la libertà d’iniziativa regia, e il peso verso la componente rappresentativa
parlamentare e molto forte, ma tutt’oggi è il Presidente della Repubblica a poter sciogliere le Camere, o, in
19 Sarebbe, quindi, più che giusto che si valutasse attentamente quali dei beni privati della famiglia reale, dopo il 1946, sono stati
impropriamente incamerati dalla Repubblica.

13

campo onorifico, a concedere le onorificenze; e ancor’oggi le leggi promulgate sono sempre controfirmate da
un Ministro, com’anche il diritto di Grazia rientra nelle prerogative presidenziali. Tutti elementi, questi, che
ci inducono a riflettere sul profondo lascito che l’esperienza statutaria ha tramandato alla nostra nazione.

Indicazioni Bibliografiche essenziali (oltre alle indicazioni nelle note al testo):
– Nicola Antonetti, La forma di governo in Italia, Bologna, il Mulino 2001
– Alberto Mario Banti. La nazione del Risorgimento: parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita.
Torino, Einaudi, 2000
– Alberto Mario Banti. Il Risorgimento italiano. Roma-Bari, Laterza, 2004
– Paolo Colombo, Storia Costituzionale della Monarchia Italiana, Roma-Bari, Laterza, 2001
– Franco Della Peruta. L'Italia del Risorgimento: problemi, momenti e figure. Milano, Angeli, 1997
– Franco Della Peruta. Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento. Milano, Angeli, 1989
– G. Falco, Lo Statuto albertino e la sua preparazione, Roma, Capriotti, 1945
– Carlo Ghisalberti. Istituzioni e società civile nell'età del Risorgimento. Roma-Bari, Laterza, 2005
– Denis Mack Smith. Il Risorgimento italiano: storia e testi. Roma-Bari, Laterza, 1999
– G. Negri, S. Simoni (a cura di), Lo Statuto albertino e i lavori preparatori, Roma, Colombo, 1989
– Lucy Riall. Il Risorgimento: storia e interpretazioni. Roma, Donzelli, 1997
– Rosario Romeo. Risorgimento e capitalismo. Roma-Bari, Laterza, 1998
– Alfonso Scirocco. L'Italia del risorgimento: 1800-1860, in Storia d'Italia dall'unità alla Repubblica,
Bologna, Il mulino, 1990
– Alfonso Scirocco. In difesa del Risorgimento. Bologna, Il mulino, 1998
– Stuart J. Woolf. Il risorgimento italiano. Torino, Einaudi, 1981

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