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Reyhaneh difficilmente innocente

n-JABBARIUna giovane donna iraniana, Reyhaneh Jabbari, è stata impiccata a Tehran perché nel 2007, quando aveva diciannove anni, ha pugnalato a morte l’uomo che – secondo quanto da lei affermato, e secondo i giornali occidentali – aveva tentato di violentarla. Che l’abbia effettivamente violentata non lo dice nemmeno la stessa donna, ma riguardo a tutta la vicenda – anche se la notizia ha provocato scandalo ed orrore un po’ in tutto il mondo – non dobbiamo dimenticare che disponiamo di ben pochi elementi oggettivi.
In Italia, Paese tendenzialmente pagano (non abbiamo avuto la Riforma perché non abbiamo mai preso sul serio la religione), l’Iran, Paese a regime teocratico, può essere giudicato soltanto come espressione di una mentalità arcaica, illiberale, selvaggia. Ed effettivamente abbiamo letto che lì si condannano a morte gli omosessuali in quanto tali, si infliggono pene gravissime per ragioni religiose (che nessuno provi ad insultare Maometto), si obbligano tutte le donne a seguire norme islamiche per l’abbigliamento (anche se nel Corano non se n’è mai parlato), tanto che il regime degli Ayatollah è riuscito a far rimpiangere caldamente lo Shah. Questi almeno, se pure con metodi talvolta fin troppo ruvidi, avrebbe voluto rendere la sua nazione più laica e più moderna.

Come se non bastasse, gli anni di Ahmadinejad hanno dato all’Iran il volto dell’estremismo, dell’intolleranza, della minaccia e del più feroce e stupido antisemitismo. Insomma, non c’è nessuna ragione per dire bene dell’Iran quale si presenta attualmente.
Per quanto riguarda la giovane Reyhaneh Jabbari, lascia sgomenti il fatto che sia stata giustiziata: sia per la sua età, sia perché ha potuto rappresentarsi questo tragico momento per ben sette anni, sia per la modalità dell’esecuzione. L’impiccagione non è un supplizio particolarmente crudele, se ben eseguito: ma come si fa ad essere sicuri della competenza del boia iraniano?

Questa lunga premessa serve tuttavia ad evitare gli equivoci. Si può essere contro la pena di morte a prescindere, soprattutto quando si tratta di un omicidio non particolarmente grave, non premeditato e non realizzato con modalità crudeli. Dunque si può essere ragionevolmente sicuri che in qualunque Paese civile, inclusi quelli che hanno la pena di morte, Reyhaneh non sarebbe stata giustiziata.  Ma molta gente, se trova il condannato amabile, ha tendenza a considerarlo a priori innocente: e questo è un errore.

Nel famoso film “Un posto al sole”, del 1951, il protagonista, un estremamente affascinante Montgomery Clift, si innamora di una Elizabeth Taylor di sfolgorante bellezza, e per liberarsi della moglie l’uccide. Si ha il processo e, benché lo spettatore non riesca a vietarsi di sperare che non vada troppo male al protagonista, il reo è condannato a morte. Non per niente il film è tratto da un romanzo dal titolo: “Una tragedia americana”. Il personaggio di Clift ha ucciso la moglie con premeditazione e la massima pena, secondo il codice, l’ha meritata.

Nel caso della Jabbari la simpatia che si vorrebbe sentire per lei è disturbata da alcuni elementi. Innanzi tutto i giornali riferiscono che, a causa di quel tentativo di stupro, e non stupro consumato, ella ha pugnalato l’aggressore alla schiena. La stessa veridicità del fatto è messa in dubbio dalla famiglia della vittima. Questa  si era dichiarata disposta a salvare la vita della donna se ella avesse dichiarato che quel tentativo non c’era stato. Ma lei ha rifiutato, preferendo affrontare la forca. Questo particolare dimostra che nella vicenda è anche entrato il fattore onorabilità: il figlio della vittima voleva ad ogni costo che fosse riabilitata la memoria del padre, la colpevole voleva ad ogni costo far apparire giustificato (per legittima difesa) il suo omicidio. Ma tutto ciò è secondario rispetto all’ineludibile particolare dell’accoltellamento alla schiena.

Mentre un accoltellamento al petto, o comunque sulla parte anteriore del corpo, può far pensare alla colluttazione con un aggressore, un accoltellamento alla schiena esclude l’esimente della legittima difesa. Si è costretti a pensare ad una vendetta per la quale va attribuita alla rea l’attenuante di avere agito in preda all’ira per il fatto ingiusto altrui. Ma omicidio volontario rimane. E tutto ciò non va detto a difesa della giustizia iraniana, di cui non conosciamo il livello, ma per il dovere che abbiamo riguardo al nostro stesso senso critico e alla nostra serenità di giudizio.
Naturalmente ciò non cambia la realtà di una condanna a morte eccessiva: ma trattare la giovane Jabbari da innocente sembra azzardato.
Gianni Pardo, pardonuovo@myblog.it
25 ottobre 2014

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