Le Relazioni Euromediterranee dalla dichiarazione di Barcellona ad oggi.
Relazione di Loredana Orlando al Seminario “La Prospettiva Euromediterranea, terzo incontro del I Ciclo verso Europa 2020. Napoli, Università L’Orientale, Cappella Pappacoda, 3/12/2012
A partire dal 1995 l’Europa, visti i fallimenti degli accordi commerciali preferenziali degli anni 70 e consapevole degli errori riscontrati nella Politica mediterranea rinnovata e nella politica globale mediterranea, sceglie di cambiare strategia .
Nella Dichiarazione di Barcellona firmata dai rappresentanti di 15 paesi UE e di 12 Paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo (Marocco, Algeria, Tunisia, Malta, Egitto, Israele, Giordania, Siria, Turchia, Cipro, Libano e Autorità Palestinese) vengono affrontate in maniera chiara e sintetica alcune cruciali questioni di carattere politico, sociale ed economico, considerate per la prima volta inscindibili tra loro . A differenza degli accordi commerciali tra Europa e Paesi arabi, che negli anni ‘70 si fondavano su una cooperazione bilaterale, con il PEM viene introdotto un approccio cooperativo di tipo multilaterale.
Nell’accordo figuravano azioni, modalità di lavoro e obiettivi nuovi, ma la vera grande novità promossa dal Partenariato consisteva nel superamento dell’approccio di tipo “assistenzialistico” a favore di un approccio cooperativo in grado di inserire i Paesi aderenti al Partenariato in una rete di relazioni orizzontali.
Nonostante le innovazioni propositive enunciate dalla Dichiarazione di Barcellona, i risultati attesi non sono stati raggiunti a causa della mancanza di un progetto mediterraneo condiviso e di un quadro politico e istituzionale unitario.
Probabilmente con obiettivi più definiti, strumenti più adeguati e maggiori risorse, l’UE avrebbe potuto adottare una strategia più ampia volta alla realizzazione di una reale cooperazione sud/nord.
Al di là degli errori di forma che sono stati compiuti, difficoltà concrete esistevano realmente ed erano legate alla diversità economica, politico-istituzionale e sociale che intercorreva tra i Paesi delle due sponde e che rende ancora oggi molto difficile la realizzazione di una cooperazione “inter pares”. Infatti, nella consapevolezza di queste differenze, l’Unione Europea (Ue), nel 1995, aveva articolato il piano d’intervento di Barcellona in tre grandi macro aree distinte eppure strettamente legate tra loro: Asse politico e di sicurezza, Asse economico e finanziario, Asse culturale, sociale e umano. L’interdipendenza tra i progetti appartenenti a campi d’azione diversi avrebbe permesso il PEM di realizzare un’area di pace, sicurezza e prosperità.
Il processo di Barcellona era dotato di una serie di strumenti di cooperazione permanenti, tra i quali il Forum parlamentare mediterraneo che nel 2005 s’è trasformato nell’Assemblea Parlamentare Euromediterranea (APEM) .
Tuttavia, il partenariato tra la sponda nord e la sponda sud ha intessuto accordi bilaterali- si trattava, nello specifico, degli Accordi di Associazione – solo con una parte dei paesi afferenti all’area africana (Turchia, Marocco, Israele e Autorità Palestinese), rimandando ad un tempo successivo gli accordi con l’Algeria, l’Egitto, il Libano e la Siria avvenuto nel 2004. In effetti l’impegno finanziario assunto dall’Ue dal 1995 fino al 2006 testimoniava, secondo i relativi dati di bilancio, la difficoltà della sponda nord di realizzare gli obiettivi della cooperazione euromediterranea. Gli ostacoli realizzativi contraddicevano, però, lo stanziamento dei fondi europei destinato al partenariato euromediterraneo di 5,35 miliardi di euro per il periodo 2000-2006 .
Le risposte al rallentamento del processo di integrazione sono state rintracciate soprattutto nel protrarsi del conflitto israelo-palestinese. In tal senso è maturata l’opportunità di rivedere il pilastro dei principi della Dichiarazione di Barcellona, ossia la creazione di un’area di pace nel Mediterraneo, optando per una distinzione tra la promozione di alcune azioni volte a favorire lo sviluppo della cooperazione tra i vari paesi e l’evoluzione del processo di pace in Medio Oriente.
Purtroppo l’UE ha incentrato la maggior parte del suo interesse sull’asse economico limitando la realizzazione dell’originale e completo piano d’intervento. Nella Dichiarazione di Barcellona era evidente come la liberalizzazione economica dovesse essere accompagnata da cambiamenti politici e sociali ispirati ai principi di democrazia e al rispetto dei diritti fondamentali.
In definitiva, l’approccio cooperativo di Barcellona, che prevedeva un aiuto comunitario organizzato in modo multi settoriale e pluriannuale con obiettivi economici, politici e culturali, non ha ottenuto i risultati sperati impedendo di fatto il costituirsi di un’area di coesione e prosperità condivisa. Ciò è dipeso per diversi motivi tra i quali figurano la scarsa capacità di assorbimento degli aiuti da parte dei paesi beneficiari della sponda sud, e gli interessi contrapposti dei singoli Stati membri dell’Unione rispetto ai paesi dell’area africana. Nonostante gli evidenti ritardi nella strategia di cooperazione euromediterranea, occorre riconoscere gli sforzi profusi dall’Ue e dagli altri attori coinvolti nel processo d’integrazione (forze imprenditoriali e società civile). A tal fine, la Commissione europea e il Consiglio hanno varato nel 2000 una “strategia comune” per il Mediterraneo cui sono seguiti rapporti regolari da parte della Commissione finalizzati a dare nuova linfa al processo di Barcellona.
Nei suddetti rapporti sono emerse le criticità afferenti alle priorità stabilite nel 1995 nella prospettiva del partenariato tra le sponde nord e sud del Mediterraneo. In particolare, il Parlamento europeo ha evidenziato la necessità di conferire una dimensione sociale, culturale e civile alla cooperazione limitata, fino a quel momento, all’esclusiva definizione di accordi commerciali. Ancora oggi permangono ritardi nelle politiche di formazione culturale/professionale e di valorizzazione delle risorse umane. Pertanto, tra gli obiettivi prioritari di Barcellona, veniva posta l’esigenza di coniugare l’ammodernamento delle strutture amministrative dei paesi interessati con una revisione delle politiche d’immigrazione aventi come obiettivo la promozione della libera circolazione degli individui, nell’ottica della costruzione di un partenariato solidale.
Tuttavia, le premesse del progetto comunitario sulle quali è stato strutturato il Partenariato euromediterraneo (PEM) si sono rivelate refrattarie all’attuazione al punto che nel 2000, nel corso della Conferenza Ministeriale di Marsiglia, gli obiettivi sanciti dalla Dichiarazione di Barcellona subiscono una battuta d’arresto.
Tra il 2003 e il 2004 prende forma una nuova politica europea di cooperazione rivolta a tutti i paesi ad essa confinanti in vista del suo graduale allargamento verso Est, la Politica Europea di Vicinato (PEV) . Essa si rivolge ai paesi mediterranei (Algeria, Autorità nazionale palestinese, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Siria, Tunisia), ai nuovi vicini orientali (Federazione Russa, Bielorussia, Moldavia, Ucraina) e ai paesi del Caucaso meridionale (Armenia, Azerbaijan, Georgia).
La PEV si basa sui Piani d’Azione, documenti politici siglati tra l’Ue e i singoli paesi vicini, nei quali sono elencate le priorità della cooperazione tra le due parti e le riforme che gli Stati coinvolti nell’iniziativa devono attuare. Tra le aree di cooperazione della PEV figurano: il dialogo politico; le riforme economico-sociali e lo sviluppo; i contatti tra le persone. Inoltre, la nuova forma di partenariato promossa dall’Ue si propone anche di sostenere la formazione democratica, istituendo un Fondo europeo per la democrazia destinato a partiti politici democratici, organizzazioni non governative e parti sociali.
Tuttavia, la PEV ha suscitato diverse critiche soprattutto da parte dei paesi mediterranei che si sono visti togliere il ruolo di partner privilegiati che avevano da tempo. In effetti la Politica Europea di Vicinato, disponendo di un solo programma strategico comune, metteva di fatto tutti i paesi su un stesso livello senza tener conto delle peculiarità economico-storico-istituzionali dei paesi aderenti.
Con la PEV si ritorna alla cooperazione bilaterale introducendovi un elemento nuovo: tutti i paesi aderenti dovranno seguire un programma strategico unico, ma sceglieranno tempi e modalità d’azione autonomamente senza dover attendere i tempi e il progresso dei lavori degli altri Paesi.
Si avverte, nell’attuale strategia europea, l’assenza di un programma di ampio respiro – sia in termini politici sia per quanto concerne le risorse finanziarie – volto a comprendere come un valore aggiunto la dimensione regionale e sub-regionale della politica di cooperazione. Una gestione finalizzata solo alla definizione aggiornata degli accordi di natura commerciale, così come compresi nei Piani d’Azione di ciascun paese, alla lunga potrebbe non prendere in considerazione gli sviluppi politici e le conseguenze sociali che interessano determinate aree del Mediterraneo.
Nonostante questa nuova modalità di lavoro che aveva lo scopo di promuovere i principi di uguaglianza e decentramento, sembra che l’asimmetria nord/sud sia ancora lontana dal colmarsi.
A distanza di 13 anni dal Processo di Barcellona, il sentimento di insoddisfazione per i risultati raggiunti, sia nell’ambito del Partenariato euro-mediterraneo che nella più recente Politica Europea di Vicinato spinge l’UE nel 2008 – per iniziativa del presidente francese Sarkozy – a elaborare una nuova politica mediterranea, l’Unione per il Mediterraneo (UpM).
L’UpM viene formalmente istituita il 13 luglio 2008, in occasione del Vertice di Parigi che ha visto la partecipazione di 43 Paesi insieme alla Commissione Europea e alla Lega Araba presente in qualità di osservatore.
L’idea di rilanciare una nuova politica rivolta al Mediterraneo allo scopo di rafforzare le relazioni tra i Paesi della regione è da attribuire anche alla necessità europea di affrontare la grave crisi economico finanziaria scoppiata nel 2008.
In questo contesto si inserisce anche l’inasprimento dei conflitti nell’area e della tensione arabo-israeliana, che hanno contribuito a creare un clima di instabilità politica e economica nella regione.
La proposta francese che si inseriva in un quadro così difficile aveva l’obiettivo di innovare la cooperazione euromediterranea attraverso una trasformazione degli equilibri politici e istituzionali nella regione. A tal fine, infatti, la presidenza francese proponeva la creazione di un’organizzazione internazionale dotata di istituzioni autonome e aperte a tutti i paesi della regione. L’UpM con la sua struttura istituzionale intergovernativa rappresentava proprio questa volontà.
Questo tipo di organizzazione, definita durante la conferenza di Marsiglia nel Novembre del 2008, aveva lo scopo di affidare responsabilità e ruoli istituzionali uguali a tutti i membri per rispettarne il ruolo di partner alla pari.
La struttura istituzionale adottata al Vertice di Marsiglia si presentava così:
– un’Assemblea permanente di Alti Funzionari che prepara gli incontri dei capi di stato e sottopone le proposte di progetti e il programma di lavoro annuale ai ministri degli esteri;
– un Comitato permanente di rappresentati nazionali con sede a Bruxelles che assiste a prepara gli incontri degli Alti Funzionari;
– il Segretariato dell’Unione per il Mediterraneo, con sede a Barcellona, cui spetta il ruolo di individuare, elaborare e coordinare i progetti proposti all’UpM che siano in linea con i principi e le norme del diritto internazionale;
– una Co-Presidenza formata da un rappresentante dalle UE e uno proveniente da uno dei PPM con un mandato di due anni. Al primo vertice del 2008 la co-presidenza è stata affidata al Presidente francese Nicolas Sarkozy e al Presidente egiziano Hosni Mubarak.
Alla nuova struttura istituzionale si affiancava un metodo di lavoro che, pur rispettando la politica del PEM, si concentrava nell’esecuzione dei singoli progetti complementari alle politiche già esistenti. La funzionalità di tale approccio avrebbe permesso di lavorare su ciascun progetto, esteso su scala regionale e sub-regionale e – allo stesso tempo – di rendere evidente, concreta e più visibile l’azione e l’efficacia di tali progetti alle popolazioni locali.
Se a livello di organizzazione istituzionale e di metodologia di lavoro, l’UpM si differenzia dalle politiche di cooperazione euro mediterranee precedenti, sul piano delle aree d’intervento non ha presentato grandi novità.
L’UpM non ha voluto modificare le macroaree d’intervento previste da Barcellona anche perché, se guardiamo alle piccole azioni, i progetti previsti hanno ben funzionato. Dunque l’UpM ha previsto le seguenti aree d’intervento prioritario: ambiente e sviluppo sostenibile, crescita economica e sviluppo sociale, sicurezza marittima e lotta al terrorismo.
Le azioni che sono state inserite nel programma riguardano: a) la lotta contro l’inquinamento del mar Mediterraneo; b) il potenziamento dei trasporti marittimi e terrestri nella regione; c) la creazione di un programma di protezione civile; d) le energie alternative; e) l’istruzione superiore e la ricerca (EMUNI); f) l’Iniziativa di Sviluppo Imprenditoriale Mediterranea (MBDI), che riguarda in particolare le piccole e medie imprese.
Purtroppo fino ad oggi l’UpM non ha dato dei risultati concreti, la maggior parte dei progetti annunciati durante la Dichiarazione di Parigi non hanno visto la luce. Le ragioni di tale fallimento sono da individuarsi in due fattori essenziali: da un lato non sono state tenute in considerazione le difficoltà politiche con le quali i progetti avrebbero finito per scontrarsi. Basti pensare al fatto che la struttura intergovernativa che presuppone una simmetria di responsabilità e gestione ha reso impossibile il dialogo tra due membri tradizionalmente antagonisti come Israele e Autorità Palestinese; dall’altro i finanziamenti stanziati si sono rivelati inadeguati rispetto ai progetti d’intervento da fare.
Loredana Orlando, Associazione Prospettiva Europea
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