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Le cosmicomiche di Italo Calvino

cosmicomicheLaboratorio Letteratura e Innovazione, a cura di Chiara Villani.

«Cadere nel vuoto come cadevo io, nessuno di voi sa cosa vuol dire. Per voi cadere è sbattersi giù magari dal ventesimo piano d’un grattacielo, o da un aeroplano che si guasta in volo: precipitare a testa sotto, annaspare un po’ nell’aria, ed ecco che la terra è subito lì, e ci si piglia una gran botta. Io vi parlo invece di quando non c’era sotto nessuna terra né nient’altro di solido, neppure un corpo celeste in lontananza capace d’attirarti nella sua orbita. Si cadeva così, indefinitamente, per un tempo indefinito al quale è pensabile che si possa andar giù, e una volta lì vedevo che quell’estremo limite doveva essere molto ma molto più sotto, lontanissimo, e continuavo a cadere per raggiungerlo. Non essendoci punti di riferimento, non avevo idea se la mia caduta fosse precipitosa o lenta. Ripensandoci, non c’erano prove nemmeno che stessi veramente cadendo: magari ero sempre rimasto immobile nello stesso punto, o mi muovevo in senso ascendente».

Nelle Cosmicomiche, Italo Calvino disorienta il lettore verso un’epoca passata e non futura sebbene l’argomento trattato proietti, superficialmente, in una dimensione prossima. A differenza di molti suoi contemporanei, Calvino dimostra una propensione positiva verso la sfera tecnologico-innovativa, sfruttando tale tematica per far evadere colui che fruisce l’opera. Lo stesso autore lo afferma nella Presentazione: «C’è il fatto, osservato già da vari critici, che la science-fiction tratta del futuro mentre ognuno dei miei racconti ha l’aria di fare il verso d’un “mito delle origini”. Ma non è tanto questo: è il diverso rapporto tra dati scientifici e invenzione fantastica. […] Insomma io vorrei servirmi del dato scientifico come d’una carica propulsiva per uscire dalle abitudini dell’immaginazione, e vivere magari il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza; la fantascienza invece mi pare che tenda ad avvicinare, che tenda a dargli una dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte d’immaginazione che fa parte già d’un’abitudine accettata».

A favore di questa visione l’illustre Eugenio Montale nella postfazione “È fantascientifico ma alla rovescia” – pubblicata sul Corriere della Sera – sottolinea come l’autore si serva di due generi e li capovolga :«Fantascientifico alla rovescia, proiettato cioè verso il più oscuro passato e non verso le conquiste della scienza futura, Calvino immagina che in tempi in cui non era né luce né aria né suono o parola, e nemmeno alcuna forma di vita biologica, esistessero esseri come noi, viventi e parlanti e diversi da noi solo perché privi affatto di nome e di stato civile» ; tempi diversi, passato e futuro, che collimano in un’unica concezione di un romanzo che mostra la fragilità e, allo stesso tempo, la curiosità degli scrittori novecenteschi nei confronti dell’innovazione. Calvino nell’opera unisce due aggettivi: quello cosmico, nel tentativo di rimettersi in rapporto con qualcosa di molto più antico, poiché «nell’uomo primitivo e nei classici il senso cosmico era l’atteggiamento più naturale» ; quello comico, che fa da ponte, poiché l’umanità per affrontare le problematiche della vita ha bisogno di uno schermo, e si rifà «alle “comiche” del cinema muto, e soprattutto ai comics o storielle a vignette in cui un pupazzetto emblematico si trova di volta in volta in situazioni sempre diverse che pure seguono uno schema comune».
Attraverso uno stile efficace, quindi, Italo Calvino misura l’impiego del parlato e dimostra una certa lucidità nel difendersi «trincerandosi deliberatamente in un suo fortilizio di disimpegno e di “inappartenenza”». I modelli ai quali si ispira l’autore sono molteplici e si distribuiscono su più fronti artistici, a sottolinearne la capacità artistica a tutto tondo: tra i più influenti si trovano Leopardi, Giordano Bruno, Borges, Lewis Carroll, Kant e Landolfi per la letteratura; Popeye per i comics; Matta per la pittura e Grandville per le incisioni.

Per comprendere a pieno il fine ultimo dell’opera bisogna comprendere Qfwfq, protagonista dei racconti e motore insostituibile degli eventi. Il nome è una somma di segni, una sinossi del pensiero calviniano: le lettere formano un palindromo, a sottolineare l’importanza del tempo; come il personaggio principale avverte l’oscillazione del tempo nonché la vacuità della condizione, così il fruitore viene guidato lungo l’itinerario che compie Qfwfq. Il segno ha un ruolo centrale: Calvino ne è affascinato e dimostra un’apertura mentale verso qualcosa di indefinito, come lo è il periodo storico in cui si trova. Proiettato verso l’indefinito, l’autore esplica in più occasioni il desiderio di conoscere l’indefinito, tempo o spazio che sia, mettendo da parte il presente tangente. Dalla somma dei segni che formano il nome alla singolarità che contraddistingue ogni essere vivente, questo il messaggio dell’opera: «il segno serviva a segnare un punto, ma nello stesso tempo segnava che lì c’era un segno, cosa ancora più importante perché di punti ce n’erano tanti mentre di segni c’era solo quello, e nello stesso tempo il segno era il mio segno, il segno di me, perché era l’unico segno che io avessi mai fatto e io ero l’unico che avesse mai fatto segni. Era come un nome, il nome di quel punto, e anche il mio nome che io avevo segnato su quel punto, insomma era l’unico nome disponibile per tutto ciò che richiedeva un nome».

In un’atmosfera in cui la scienza esautora antropocentrismo e ha un ruolo centrale, il cambiamento di paradigma muta la concezione dello spazio e del tempo e muta la sua concezione nei confronti dell’autore: «La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può̀dare coi suoi mezzi specifici». Che poi, aggiunge: «Nell’universo infinito della letteratura ci sono sempre nuove vie da esplorare».

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