In ricordo di Enrico Morbelli
Nei giorni scorsi ci ha lasciato Enrico Morbelli, giornalista e fondatore della Scuola di Liberalismo. Lo salutiamo condividendo il personale ricordo di Saro Freni.
Scrivo qualcosa che non avrei mai voluto scrivere, e che soprattutto lui avrebbe scritto molto meglio. Come si scrive un bel ricordo? Non gliel’ho mai chiesto. Enrico Morbelli era fenomenale anche in questo: riusciva a parlare di chi se ne andava come se fosse ancora vivo e potesse ascoltarlo. E trovava sempre le parole giuste, quelle che io ora temo di non trovare, aiutato anche da una memoria prodigiosa, che gli consentiva di ricordare tutto: anche circostanze, conversazioni, dettagli lontani nel tempo.
Quante volte scherzava anche sulla morte, come su tutto il resto, e sui funerali “dove si incontrano sempre tanti amici”. Era una miniera di aneddoti e di battute e di ironia e di vita vissuta. E soprattutto di voglia di fare. Mille pranzi, cene, o anche semplici caffè nel salotto di casa sua, con gli amici della Scuola di Liberalismo, per organizzare ciò che andava fatto nei mesi a seguire, a tal punto che non era chiaro se ci si vedesse per organizzare qualcosa o se si organizzasse qualcosa al fine di avere un pretesto per incontrarsi.
Il mondo “morbelliano” era qualcosa di unico, perché teneva assieme le tante esperienze della sua vita: il giornalismo, la politica, lo spettacolo. Da ciascuna di queste esperienze aveva appreso molto e sapeva restituire ciò che aveva imparato nel modo migliore: senza farlo notare. Era un uomo colto, intelligente, aveva esercitato la professione di giornalista ai più alti livelli, ma non impartiva lezioni e non faceva prediche. Sapeva che, per essere presi sul serio, non bisogna prendersi sul serio. Ed è stato senz’altro il suo insegnamento più importante.
Ti insegnava anche, lui che veniva dalla radio, che quando si parla bisogna farsi capire, che non bisogna usare parole astruse, che bisogna essere chiari e non annoiare chi ti ascolta. Citava sempre una massima che attribuiva alla BBC: “la soglia di attenzione di uno spettatore è un minuto e trenta, poi la gente si distrae”. Ma lui poteva benissimo andare oltre il minuto e trenta, checché ne dicesse la BBC, e non si distraeva nessuno, perché aveva un dono naturale, innato, che il mestiere aveva solo contribuito ad affinare: quello di farsi ascoltare, di andare dritto al punto, di cogliere l’essenziale di una questione da dibattere o di un libro da presentare.
La Scuola di Liberalismo è stata una parte molto importante della sua vita. E chi lo conosceva sapeva quanto impegno dedicasse a questo corso che ha attraversato le generazioni e che ha coinvolto tantissimi allievi e i nomi più prestigiosi del pensiero liberale. Da alcuni anni la Scuola era passata all’online: una novità inizialmente forzata dalla pandemia alla quale poi ci eravamo adattati. Anche lui, alla fine, ci aveva fatto l’abitudine; lui che con la tecnologia non aveva mai stretto troppa amicizia e che portava con sé un cellulare antidiluviano, di quelli che puoi usare solo per fare le telefonate (“Be’, ma a che serve il telefono? A telefonare”, avrebbe risposto).
Ha fatto tanto per diffondere idee e cultura. Non con la teoria, che pure è importante, ma con la capacità organizzativa, l’intraprendenza, lo spirito d’iniziativa, che sono indispensabili. Era impegnato in una miriade di progetti, a cui si è dedicato fino all’ultimo, e non si fermava mai. E pensavamo, tutti, che non si sarebbe mai fermato.
L’ho conosciuto nel 2009, da allievo della Scuola di Liberalismo. In quel periodo, le inaugurazioni dell’edizione romana si tenevano all’Oratorio del Gonfalone, a due passi da Via Giulia. Da allora ho avuto il privilegio di poterlo frequentare e di collaborare con lui. Proprio oggi, nel pensare a queste righe da scrivere, ho riflettuto sul fatto che gli ho sempre dato del lei. Ora che se n’è andato, vorrei chiedergli il permesso di salutarlo, per l’ultima volta, dandogli del tu: “Ciao, Enrico. Mi mancherai”.
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