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Elezioni del Parlamento europeo, “spitzenkandidat” e presidenza della Commissione europea: uno studio del Seminario Permanente di Studi Internazionali (SSIP)

ssipdi Massimo Fragola
Da un recente studio del gruppo di lavoro (“Europe for Future”) del Seminario Permanente di Studi Internazionali (SSIP) si evince che la ricandidatura dell’attuale presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non sarebbe esclusa né dal punto di vista giuridico, né dalla prassi, piuttosto, potrebbe costituire un grattacapo dal punto di vista politico (taluni parlano di vere e proprie “forche caudine”, Movimento europeo, Editoriale dell’11 marzo 2024).
Nella complessa e articolata procedura di nomina del presidente dell’”esecutivo” comunitario (o “eurounionale” se si preferisce), la “riconferma” di un presidente per un secondo mandato (e anche più) non è un fatto nuovo ove si considerino i casi di Hallstein, Delors (3) e Barroso. Dalla nascita della Comunità economica europea (CEE) – oggi Unione europea (UE) – i presidenti sono stati 14: 3 presidenti del Lussemburgo (Thorn, Santer, Juncker), (2 tedeschi (Hallstein e von der Leyen), 2 francesi (Ortoli e Delors), 2 italiani (Malfatti e Prodi), 1 del Regno Unito (Jenkins), 1 del Belgio (Rey), 1 dei Paesi Bassi (Mansholt), 1 della Spagna (Marìn), 1 del Portogallo (Barroso). In questo
elenco emergono, come mero dato di cronaca, i tre presidenti del Lussemburgo.
Sicché, se da un lato i Trattati TUE e TFUE, nonché la prassi, non impediscono la riconferma dell’attuale presidente, dall’altro, tuttavia, c’è da considerare che la nomina/elezione (si veda oltre) del Presidente della Commissione europea è strettamente collegata ai risultati delle elezioni del Parlamento europeo e delle maggioranze che ne scaturiranno.
Si va verso una nuova “maggioranza Ursula”? Probabile.
Se è vero, infatti, che l’art. 17 TUE – che va ricordato è inserito nel Titolo III rubricato “Disposizioni relative alle istituzioni – sancisce in modo sfumato che “il mandato della Commissione è di cinque anni” (par. 3) senza null’altro aggiungere, è vero parimenti che esistono alcuni vincoli che non possono essere tralasciati.
Più in generale, la persona candidata ed elegibile deve trattarsi di “un cittadino di uno Stato membro UE” scelto in base alla sua competenza generale, al suo impegno europeo e, ancora, “tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza”. Di regola si tratta di politici che provengono da esperienze nazionali. Di regola.
Inoltre, ancorché il par. 5 dell’art. 17 TUE non è più applicabile, così come l’art. 244 TFUE – si ricorda che la riforma di Lisbona 2007/2009 aveva previsto che, a partire dal 1° novembre 2014, la Commissione europea avrebbe dovuto essere concepita da un numero di membri corrispondente ai due terzi del numero degli Stati membri, prevedendo però che il Consiglio europeo potesse decidere all’unanimità di modificare tale numero. Cosa che è stata fatta. Il Consiglio europeo ha quindi deciso nel 2009 di mantenere invariata la composizione della Commissione corrispondente a un Commissario per ogni Stato membro ritornando così allo status quo ante Lisbona – non va esclusa a priori la norma che sancisce in modo equanime e condivisibile, la scelta “dei membri della
Commissione”, e quindi anche a maggior ragione del presidente, tenendo in debito conto la differenziazione demografica e geografica degli Stati membri. Si direbbe una presidenza turnaria “paritetica” (un “sistema di rotazione paritaria tra gli Stati membri che consenta di riflettere la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri” ai sensi del par. 5, seconda frase, art. 17 TUE e art. 244 TFUE). Questo è un primo dato.
La scelta del prossimo presidente della Commissione europea, ad adiuvandum, è ancora più importante nel contesto geopolitico che viviamo in Europa e nel mondo, laddove si consideri che il presidente della Commissione definisce gli orientamenti generali delle politiche eurounionali; nomina i vicepresidenti, fatta eccezione per l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza con il quale condivide le specifiche competenze in materia di affari esteri e politica di sicurezza.
L’altro dato che va sottolineato è l’aspetto politico della nomina/elezione del presidente della Commissione europea che può essere ricondotto alla teoria tedesca dello “spitzenkandidat” o “candidato di punta” o “capolista” di punta di un partito politico europeo. Questi ultimi, sin dal 2014 sono stati “sollecitati” a concordare un candidato presidente della Commissione europea scaturito dalle maggioranze vincitrici delle elezioni del Parlamento europeo.
E questo potrebbe essere un nodo intricato da sciogliere.
Occorre considerare, pertanto, una serie di atti politici che rilevano nella questione.
Si consideri la Dichiarazione n. 11 allegata al Trattato di Lisbona, relativa all’articolo 17, paragrafi 6 e 7, del TUE, prevede che il Parlamento europeo e il Consiglio europeo siano congiuntamente responsabili del buono svolgimento del processo che porta all’elezione del presidente della Commissione europea e che tra i rappresentanti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo, si svolgano consultazioni sul profilo dei candidati alla carica di presidente della Commissione, tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo.
Il Parlamento europeo, d’altro canto, ha approvato un serie di risoluzioni nelle quali ha ribadito la sua determinazione a dare seguito al processo degli Spitzenkandidaten per l’elezione del prossimo presidente della Commissione e segnalato che avrebbe respinto qualunque candidato che non fosse stato nominato come “Spitzenkandidat” nel periodo precedente alle elezioni del Parlamento europeo.
La prassi dei Spitzenkandidaten, non prevista dai trattati, è stata seguita per la prima volta nel 2014 in occasione dell’elezione del Lussemburghese Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione europea, in quanto designato dal Partito popolare europeo (PPE) che aveva conseguito il maggior numero di seggi al Parlamento europeo.
Nella riunione informale del Consiglio europeo del 23 febbraio 2018, i Capi di Stato o di Governo dell’Unione hanno tuttavia dichiarato che non si sarebbero ritenuti vincolati alla procedura degli Spitzenkandidaten nell’individuazione del nuovo presidente della Commissione.
In proposito, la Conferenza dei presidenti del Parlamento europeo, riunitasi il 28 maggio 2019, richiamando le citate risoluzioni del Parlamento europeo, ha riconfermato la determinazione per il processo dei candidati principali, che prevede che il prossimo presidente della Commissione abbia già reso noto il suo programma prima delle elezioni e si sia impegnato in una campagna su scala europea.
Nella stessa giornata, di pronta risposta, il Consiglio europeo ha tuttavia ribadito la sua posizione, già espressa a febbraio 2018, nel senso di non riconoscere un automatismo tra l’indicazione dei candidati principali e la nomina del presidente della Commissione, ricordando che, secondo i trattati, il candidato a tale carica dovrà avere sia la maggioranza qualificata in seno al Consiglio sia la maggioranza assoluta in Parlamento. Se il candidato non ottiene la
maggioranza prescritta dei voti del Parlamento europeo, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata “rafforzata”, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal Parlamento europeo secondo la stessa procedura.
Insomma, schermaglie vere e proprie tra il Parlamento europeo (organo di individui) e il Consiglio europeo (organo di Stati).
Sicuramente le prossime votazioni di giugno 2024 saranno importanti, se non determinanti, forse più delle elezioni precedenti.
Ma allora chi elegge e chi nomina?
Ci viene in aiuto l’art. 17, par. 7 TUE che sancisce: “Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal Parlamento europeo secondo la stessa procedura. Il presidente, l’alto rappresentante dell’Unione per
gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione del Parlamento europeo. In seguito a tale approvazione la Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata”.
Anche in questa procedura così sofisticata e sensibile al tempo stesso, traspare il ruolo preminente dei governi e degli Stati (cc.dd. “Signori/Padroni dei Trattati”) con riguardo al ruolo dell’elezione del Parlamento europeo che, va ricordato, è l’unica istituzione democraticamente eletta direttamente dai cittadini. Ma nel sistema istituzionale UE ciò non basta. Il Consiglio europeo “propone” e il Parlamento europeo (non dispone!) approva il candidato…non elegge, ma approva, per di più ma in modo transitorio. Giacché, come sancisce l’art. 17, par. 7, ultima frase TUE, in seguito a tale approvazione la Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza
qualificata e che quindi ha l’ultima parola nella procedura.
Tuttavia, a contemperare gli interessi del Parlamento europeo, ai sensi dell’art. 17, par. 8 TUE,
è da sottolineare il rapporto di fiducia tra Commissione eletta/nominata e il Parlamento europeo
investito dal voto popolare.
La Commissione è responsabile collettivamente dinanzi al Parlamento europeo, una sorta di politico affidamento e di controllo politico del Parlamento sull’esecutivo. Giacché il Parlamento europeo può votare una mozione di censura della Commissione (secondo le modalità di cui all’articolo 234 TFUE). Se tale mozione è adottata, i membri della Commissione si dimettono collettivamente dalle loro funzioni e l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla Commissione.
A proposito di presidenti nelle istituzioni UE. Senza voler scendere nel dettaglio di altri organi/istituzioni va segnalato che dalle prossime elezioni europee dovranno scaturire tre presidenti: Parlamento europeo, Commissione e Consiglio europeo.
Un “rinnovamento” importante e decisivo che riguarderà la governance dell’Unione europea per i prossimi cinque anni e il suo futuro nello scacchiere geopolitico mondiale.
In una prospettiva di semplificazione – troppi presidenti che confondono l’opinione pubblica e non solo…ricordo la storica frase di Henry Kissinger – si potrebbe ipotizzare (fantapolitica?) un unico presidente “dell’Unione europea” ovvero, quantomeno, del Parlamento europeo e del Consiglio europeo così da costituire una autorevole “presidenza unica” dell’Unione europea.
Ma i tempi non sembrano maturi.
Sono, viceversa, già in atto le consultazioni dell’attuale presidente in carica della Commissione europea per una nuova “maggioranza Ursula”, vale a dire, un “campo largo” per usare un’espressione alla moda oggi in Italia, che ha funzionato nel 2019, e che prevede che una riedizione dell’inedita alleanza del 2019 con i conservatori di Fratelli d’Italia, dal PiS polacco e da Vox spagnolo, ma anche in Svezia, Finlandia e Repubblica Ceca (Editoriale del Movimento europeo dell’11 marzo 2024).
Insomma, un’elezione difficile (più delle precedenti), anche tenendo in debito conto l’astensionismo che nelle europee è stato sempre considerevole atteso il disinteresse generale allequestioni europee. Come se non ci interessassero!
La tanto invocata riforma dei trattati (semmai ci sarà) dovrà tenere conto anche di tutto questo.

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