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Quale futuro per la politica dell’Immigrazione dell’UE tra governance europea e sovranità nazionale

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Relazione di Roberta Ferrara sulle poltiche europee in materia di immigrazione discussa al Seminario “Ripensare l’Europa” (Napoli 5/12/2016).

La crescita del fenomeno dell’immigrazione in Europa ed i problemi d’integrazione e convivenza che ne derivano hanno reso sempre più necessaria una politica comune dell’immigrazione dell’Unione Europea. In realtà, l’immigrazione ha da sempre rappresentato un ambito fortemente conteso fra la necessità di regolare in maniera “unitaria” un fenomeno così complesso e la volontà dei governi nazionali di non cedere pezzi di sovranità in tale ambito alle istituzioni europee.

Di fatto, la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri è stata a lungo sottratta alle interferenze delle istituzioni europee, in quanto materia rientrante nell’ambito della domestic jurisdiction e, dunque, soggetta esclu-sivamente alla sovranità statale. Nel Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità economica europea (CEE), era, infatti, esclusa una vera e propria competenza comunitaria in materia di immigrazione. Le norme che gli Stati membri erano tenuti a rispettare facevano riferimento a un coacervo di strumenti di natura diversa: atti comunitari, convenzioni intergovernative, trattati interna-zionali. Un passo in avanti è stato compiuto con l’Atto Unico europeo del 1986, che prevede l’instaurazione di un mercato comune all’interno del quale “è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”. In ogni caso, era ancora del tutto assente una vera e propria disciplina comunitaria dell’immigrazione; gli Stati membri ricorrevano a forme di cooperazione intergovernativa. Il risultato più im-portante conseguito nell’ambito della cooperazione intergovernativa in materia d’immigrazione è stato raggiunto con l’Accordo di Schengen, firmato il 14 giugno del 1985 sia da alcuni Stati membri dell’Unione Europea sia da Stati terzi. La Convenzione, in vigore dal 1995, prevede la soppressione graduale dei controlli sulle persone alle frontiere tra i Paesi firmatari, l’armonizzazione dei controlli alle frontiere esterne dell’espace Schengen e l’introduzione tra i Paesi firmatari di una politica comune in materia di visti d’ingresso e di cooperazione di polizia e giudiziaria. Con l’adozione del Trattato di Maastricht nel 1992 alcune questioni connesse al fenomeno migratorio vengono definite per la prima volta “di interesse comune” e inserite nel Terzo Pilastro giustizia e affari interni (GAI), ma rimane esclusa una competenza comunitaria sia nelle materie rientranti nel Secondo sia nel Terzo Pilastro: la politica estera e quella interna continuano ad essere oggetto di cooperazione intergovernativa. Una tappa decisiva nell’evoluzione di una politica d’immigrazione europea è senza dubbio rappresentata dal Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999. Innanzitutto, l’acquis di Schengen viene integrato nel diritto comunitario, attraverso un apposito protocollo allegato. Viene introdotto, poi, tra gli obiettivi dell’Unione, la creazione di uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, da realizzare attraverso la rimozione graduale degli ostacoli alla libera circolazione e il rafforzamento della sicurezza. A tal fine viene apportata al Trattato un’importante modifica tecnico-giuridica, ossia il passaggio dal Terzo al Primo Pilastro di materie quali l’im-migrazione e il soggiorno di cittadini di Stati terzi, disciplinate dal nuovo Titolo IV, intitolato appunto “Visti, asilo, immigra-zione e altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone”. Molti aspetti connessi al fenomeno migratorio vengono, così, “comunitarizzati”, ossia sottoposti ad una regolamentazione che trova fondamento non più nella cooperazione intergovernativa, bensì nelle competenze specifiche dell’Unione. Più precisamente, la competenza attribuita all’Unione Europea è una competenza di natura concorrente, per la quale si applica il principio di sussidiarietà. Allo stesso tempo, l’organo centrale, anche se non unico, della procedura di adozione delle misure previste nel Titolo IV rimane il Consiglio che delibera all’unanimità su proposta della Commissione o su iniziativa di uno Stato membro, previa consultazione del Parlamento europeo. Il ricorso all’unanimità risente ancora del metodo comunitario, così come la condivisione del potere di iniziativa tra Commissione e Stati membri, segno di una persistente opposizione dei governi nazionali a cedere la piena sovranità in materia di immigrazione. Con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, si ha un’ulteriore slancio verso la definizione di una politica d’immigrazione europea. Al riguardo è opportuno segnalare l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il riconoscimento alla Carta dei diritti fondamentali dello “stesso valore giuridico dei Trattati”, oltre la soppressione dei tre “pilastri” divisori dell’ordinamento europeo, con la conseguente estensione della giurisdizione della Corte di Giustizia anche a materie rispetto alle quali detta giurisdizione risultava prima limitata. La soppressione della struttura a pilastri riconduce tutta la materia del Terzo Pilastro all’interno del Trattato sul funzionamento dell’Unione ove il nuovo Titolo V, rubricato “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, prevede “una politica comune in materia di frontiere, visti, immigrazione e asilo fondata sulla solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi”. Il richiamo alla solidarietà si riferisce all’esigenza di ripartire tra tutti gli Stati membri gli oneri della gestione della politiche comuni in questo settore che rischiano di sovraccaricare di più gli Stati di frontiera esterna meridionale e orientale, rispetto a tutti gli altri Stati Membri. Il TFUE stabilisce inoltre che lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia rientra nelle competenze di natura concorrente dell’Unione, e in quanto tale l’UE può adottare atti in base ai principi di sussidiarietà e proporzionalità, mentre gli Stati possono intervenire soltanto nella misura in cui l’Unione non abbia esercitato la propria o se l’Unione abbia deciso di cessare una competenza già avviata. Al contempo, l’articolo 72 TFUE prevede espressamente che le disposizioni del nuovo Titolo V del TFUE “non ostano all’esercizio delle responsabilità incom-benti agli Stati membri per il manteni-mento dell’ordine pubblico e la salva-guardia della sicurezza interna”. Si tratta ancora una volta di una sorta di riserva di competenza che autorizza gli Stati a derogare a eventuali normative dell’Unione. Quanto alle regole procedurali relative alle materie in questione, il Trattato di Lisbona dispone che il potere di iniziativa è di esclusiva competenza della Commissione Europea, mentre gli atti legislativi saranno adottati con procedura di codecisione, che è ora la procedura legislativa ordinaria dell’Unione, che prevede l’intervento del Parlamento europeo come codecisore e l’adozione delle delibere da parte del Consiglio a maggioranza qualificata. Il ruolo del Consiglio e degli Stati Membri rimane, tuttavia, fondamentale. Il Trattato stabi-lisce infatti che il Consiglio europeo definirà gli orientamenti strategici generali per la pianificazione legislativa e operativa nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, attraverso una programmazione quinquennale.

Con Lisbona si è ormai raggiunta la consapevolezza che solo un approccio unitario è in grado di affrontare al meglio la complessità del fenomeno migratorio.
Tuttavia, l’attuale emergenza migranti ha messo in luce le debolezze e le criticità della politica d’immigrazione comune europea. Sebbene la risposta dell’Unione Europea alla crisi migratoria sia stata articolata – con lo stanziamento di svariati milioni di euro, l’accordo con la Turchia, l’avvio di varie operazioni di controllo delle frontiere – sembra ancora insufficiente e inadeguata. Per questo, di fronte alle incessanti ondate migratorie che si riversano in territorio europeo dalla Siria e dal nord Africa, gli stati optano per soluzioni individuali, timorosi di perdere il potere e la libertà decisionale sul controllo e la sicurezza del territorio nazionale. Ne consegue la chiusura delle frontiere, la proliferazione di nuovi muri soprattutto nei balcani, il contingentamento dei passaggi in Austria e Slovenia. Un altro chiaro esempio della mancanza di volontà di affrontare il tema delle migrazioni a livello comunitario è rappresentato dal referendum dello scorso 3 ottobre voluto dal primo ministro ungherese Viktor Orbán, del partito di destra Fidesz, sulle quote decise dall’Unione Europea per ricollocare i rifugiati in Europa. Il quesito referendario recitava infatti così: «Volete che l’Unione europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento nazionale?». Il conservatore Orban ha invitato il popolo a votare «no», continuando la sua campagna contro le decisioni europee sui flussi migratori. Per il primo ministro ungherese, infatti, i migranti vanno fermati nei loro Paesi, o al massimo ai confini dei paesi Ue, andrebbe dunque rafforzata la difesa delle frontiere europee, respingendo in mare i barconi dei migranti e costruendo recinzioni.
L’Ungheria ha di fatto già costruito un muro di filo spinato, alto quattro metri e lungo 180 chilometri al confine con la Serbia, per bloccare i migranti che risalivano i Balcani tentando di entrare nell’Unione. Il referendum in questione doveva rappresentare un plebiscito che avrebbe permesso al governo ungherese di rivendicare a Bruxelles una revisione delle politiche comunitarie sui flussi migratori. Ma il referendum non ha raggiunto il quorum del 50% per essere valido, anche se il 98,3% dei votanti si è detto contrario ad accettare l’accoglienza obbligatoria di rifugiati sul territorio nazionale deciso a livello europeo. Orbán ha infatti insistito sul risultato «eccezionale» del referendum, dichiarando: «La Ue non potrà più imporre la sua volontà all’Ungheria», e ha inseguito ricordato che «hanno votato contro le quote europee più ungheresi di quelli che 13 anni fa, prima dell’allargamento dell’Unione a Est, scelsero l’adesione all’Unione». L’esito del referendum ungherese è stato colto con particolare entusiasmo da vari leader nazionalisti europei, mentre Bruxelles ha ribadito che il piano di redistribuzione in tutta Europa dei 160mila rifugiati arrivati in Grecia e in Italia, così come decisa nel 2015 è un obbligo giuridico di ciascun paese, indipendentemente da voti o referendum. Intanto la retorica populista del governo ungherese non ha gettato la spugna e Orbán ha già annunciato di voler modificare la Costituzione per stabilire che l’immigrazione è tema solo nazionale, non anche europeo.

È evidente che nonostante gli sforzi durati quasi 60 anni per giungere alla nascita di una politica comune, l’immigrazione rimane ancora un terreno di scontro, conteso fra la a necessità di garantire una governance europea del fenomeno e istanze nazionaliste.

Per superare questo impasse, acuito dalla complessità nel gestire l’attuale crisi migratoria, la politica dell’immigrazione dell’Unione ha bisogno di un nuovo slancio. Slancio che potrà arrivare dalla revisione del Regolamento di Dublino III, la cui proposta è stata presentata il 4 maggio 2016 dalla Commissione. Il “sistema” di Dublino III stabilisce i criteri e i mec-canismi di determinazione dello Stato membro competente ad esaminare una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide; sarà poi lo Stato in tal modo individuato ad essere responsabile della protezione eventualmente riconosciuta e quello ove la persona potrà successivamente risiedere. Di fatto, il sistema di Dublino non è stato concepito per garantire una distribuzione sostenibile delle responsabilità tra gli Stati membri nei confronti dei richiedenti asilo, quanto piuttosto per garantire l’accesso rapido alle procedure da parte dei richiedenti protezione internazionale attraverso l’individuazione di un unico Stato membro competente, evitando i c.d. movimenti secondari. Secondo tale logica, lo Stato membro designato generalmente è lo Stato di primo arrivo dei richiedenti asilo, per cui ne consegue che, in presenza di afflussi massicci di profughi, solo un numero ristretto di Stati membri, ossia quelli alle frontiere esterne, si siano trovati a dover gestire la maggioranza di richieste. L’obiettivo principale della proposta della Commissione è quello di garantire un più alto grado di solidarietà e un’equa condivisione delle responsabilità tra gli Stati membri. A questo fine è previsto un sistema di ripartizione delle domande per mezzo di un meccanismo correttivo di ricollocazione e un meccanismo sanzio-natorio per gli Stati che si sottraggono alla ridistribuzione. Questi ultimi rappresen-tano indubbiamente elementi di assoluta novità, in quanto l’obiettivo del Regola-mento di Dublino non è mai stato, finora, di distribuire le responsabilità tra gli Stati membri, ma si è limitato a individuarle. Il 13 luglio 2016, inoltre, la Commissione ha presentato un secondo pacchetto di riforme, con lo scopo di creare una procedura comune per la protezione internazionale, uniformare gli standard di protezione e i diritti per i beneficiari e armonizzare ulteriormente le condizioni di accoglienza nell’UE.

È indubbio che le proposte della Commissione rappresentano una novità, in quanto si dota finalmente l’Unione Europea dello strumento con cui concretizzare quel principio di solidarietà tra gli Stati membri sancito nell’art. 80 TFUE, ma vi sono forti perplessità che vale la pena sottolineare. Dapprima, l’esperienza delle decisioni del Consiglio sulla ricollocazione dei profughi dall’Italia e dalla Grecia non è stata positiva e questo non lascia ben sperare nel successo della proposta: secondo l’ultima relazione della Commissione, all’11 luglio 2016 erano state ricollocate 3056 delle 160.000 persone previste. Infine, per riformare il Regolamento di Dublino è necessario che la proposta avanzata dalla Commissione venga poi approvata dal Consiglio. La decisione torna, dunque, nelle mani dei singoli Stati. Spetterà agli Stati Membri decidere di superare la loro avversione a cedere ulteriori pezzi di sovranità all’Ue e trovare un accordo per far decollare finalmente una politica dell’ immigrazione europea all’altezza delle grandi sfide di oggi e di domani.

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