Sam Mendes e i debiti con La Grande Guerra
Di Nazareno Barone
“Beato lui che è del 1916, così non farà mai guerre!”
(Oreste Jacovacci né “La grande guerra”, di M. Monicelli)
E’ decisamente complesso parlare di questa poderosa, tangibile e allo stesso tempo astratta opera di Sam Mendes, astratta e incomprensibile come è stata quella guerra che ha visto protagonisti, nell’accezione più ampia, ragazzi, bambini, anziani e donne, insomma persone, prima ancora che Stati.
Perché il livello di assurdità e, come dicevo, di astrazione completa e assoluta, io lo trovo, prima ancora che negli aspetti puramente estetici e diegetici del film in questione, più presente nel rapporto dicotomico uomo/natura, in quella contraddizione in termini che è l’ancestrale conflitto fra esseri umani coinvolti in reciproche uccisioni “legittime” (homo sapiens VS. homo sapiens) e quella Natura onnipresente che si lascia sterminare e annientare, ma che trova e troverà sempre il modo di rifiorire, essere trappola – in tal caso maggiormente per gli americani – ed imperare, sempre e dovunque.
Dunque, scriverò di questo “1917” raccontandolo in parte ed esprimendomi da un punto di vista tecnico, certo, ma tentando di soffermarmi il meno possibile perché, a mio avviso, il primo punto messo in questione appena sopra, merita maggiore spazio.
Mendes utilizza almeno 2 piani sequenza espliciti per descrivere visivamente il suo racconto, anche se la percezione generale è di un unico piano sequenza; c’è da considerare che con delle accorte strategie in sede di riprese, montaggio ed effetti speciali saranno almeno 5 i piani sequenza, ma poco importa. Ciò che conta è che questo straordinario regista, insieme al suo Direttore della fotografia (Roger Deakins), ci fanno vivere la linea americana e la linea nemica (l’ignota linea tedesca) con un climax da far mancare il fiato. Due linee, due momenti che si intrecciano simbolicamente anche a livello psicoanalitico: il primo stacco è nel buio del primo fortino tedesco abbandonato, e avviene dopo circa un’ora di film; il secondo stacco è stacco al buio, all’interno della scena in cui il rinculo del fucile da cui spara William Schofield (e lo sparo alla rovescia del nemico che sfiora il nostro protagonista americano) lo fa rimbalzare all’indietro, per poi farlo svenire. Dopo di che tutto procede come un lungo sogno, o long (take) dream a occhi aperti: sono gli effetti della guerra, in uno scenario da girone dantesco, che ripercorre magistralmente le atmosfere di De Chirico e tanto surrealismo, senza clacare troppo la mano da questo punto di vista.
Per il resto i costumi sono eccezionali nel riproporre in modo asciutto e pulito il periodo storico della Prima Guerra Mondiale, attraverso anche una fotografia che vira su un grade tendente al marrone e al grigio, aderente a ciò che ci si attende da un film ambientato negli anni ’10 del XX secolo. Fotografia importante anche nella misura in cui alterna grandi movimenti di MDP (a mano, in steadycam e dolly o crane). Come breve appendice a quanto detto, e quindi ai movimenti di macchina, c’è da precisare che il giorno è reso più dinamico e meno fluido, e ciò è funzionale rispetto all’ansia e all’agitazione che vivono i due protagonisti iniziali; la notte è invece restituita attraverso un’analisi del contesto e dell’ambiente che ci appare riflessiva, con movimenti più fluenti e che raccontano ciò che è e ciò che è stato, la realtà della guerra e delle zone devastate.
La regia è invadente e vi restituisco questa riflessione: l’occhio della Macchina Da Presa è un intruso? E’ un nemico? E’ la famiglia che fa da riflesso per il nostro soldato protagonista William e il suo amico Tom, ormai morto sul campo di battaglia a metà film? E’ troppo espressiva, sfacciata e forse poco trasparente? Pur avendo una mia idea – peraltro suggerita, almeno credo in queste domande poste –, preferisco come detto, affrontare adesso altri temi, a mio parere più importanti, seppur apparentemente collaterali.
La morte e la natura giocano ovviamente un ruolo fondamentale per questo nuovo e ambizioso film di Sam Mendes. Alberi rasi al suolo o abbattuti, mucche stramazzate (e uccise) nel bel mezzo di ciò che resta di lunghe praterie, terra arsa e scenari in cui l’uomo è intervenuto in modo massiccio per raggiungere un obiettivo di morte (che coincide con quel senso di autodistruzione e thanatos intrinseco nell’umano).
Pare che soltanto i cani riescano a sopravvivere fra le braccia dei propri padroni (angloamericani), qualche mucca (forse una) e di certo sopravvivono, vivono e prosperano i ratti, numerosi e funzionali alla momentanea vittoria tedesca (come trappola anti americana): una metafora metastorica a mio avviso infelice e populista quella fra il roditore e il tedesco, che prontamente reagisce in modo omicida anche agli aiuti dei soldati di stampo USA (e qui Mendes e la Krysty Wilson-Cairns strizzano furbescamente l’occhio al probabile Oscar per il Miglior Film), o che fa da spia come un topo, nonostante il proprio nemico decida di non abbatterlo (almeno sul primo colpo). Una scelta dettata dalla Storia e dalle posizioni politiche del racconto, ma che, io credo, venga restituita in maniera troppo forte, seppur nei limiti della trasparenza e dei dialoghi fra personaggi.
Dicevo, soltanto alcuni animali sopravvivono a questo sterminio: per il resto assistiamo a carne morta e cadaveri in putrefazione, scene da stomaci forti soprattutto nei dettagli della prima parte del film, durante il quale i due soldati-compagni si avventurano, metro dopo metro, al di fuori della propria trincea, imbattendosi in stomaci aperti (quelli delle persone del proprio battaglione) e orge di mosche e topi che banchettano intorno a ciò che è forse inenarrabile.
Dunque, il rapporto Uomo-Natura è al centro ed è un aspetto che fa i debiti con i grandi film di Werner Herzog (uno su tutti “Aguirre”), Coppola, Kubrick e Mallick, senza avere però la capacità sintetico-simbolica di questi ultimi giganti del Cinema di tutti i tempi. Certo è che si tratta di un film nuovo, fresco, immersivo, questo “1917” esaltante per ritmo e tensione, capolavoro per molti aspetti di cui ho accennato in precedenza.
Concedetemi, a tal proposito, una breve nota: poche ore fa e proprio mentre scrivevo queste righe, si è spento Kirk Douglas, immenso attore proprio di quel “Orizzonti di Gloria” kubrickiano di cui e per cui facevo riferimento appena su. Ed è strano che proprio a 103 anni, quest’uomo dalla possente mascella e dalla straordinaria capacità camaleontica (come personaggi interpretati) abbia deciso di andarsene proprio a cavallo, o quasi, della Notte degli Oscar, per la quale “1917” è in concorso per i premi che più contano. 1917, una data importante per il padre del grande Michael Douglas (anch’egli magnifico interprete), perché Kirk è nato proprio a ridosso di quel ’17, per la precisione il 9 dicembre del 1916, giusto in tempo per affacciarsi al nuovo anno a 22 giorni di età; giusto il tempo, appena ieri, per guardare questo piccolo grande gioiello di Mendes ambientato agli albori della sua vita! Una piccola suggestione la mia, un omaggio che tutta la redazione di Rivista Europa Lab dedica ad un grande uomo, padre, prima ancora che attore.
Inoltre, e concludo con i riferimenti, il debito (o l’omaggio) al Renoir de “La grande illusione” è vinto e pareggiato con grande rispetto, specie nella narrazione della fuga del duo di soldati (qui soltanto americani) alla ricerca di qualcosa che è salvezza, ma anche ingenuo patriottismo. Abbandonando adesso gli incanti renoiriani e tornando a noi, c’è infatti da sottolineare che i due giovani caporali sono spinti, infatti, da Erinmore (Colin Firth), Generale del loro settore, il quale in modo funzionale e furbo sceglie il fratello del tenente Blake (stanziato sull’altro fronte e minore dei due, interpretato da Richard Madden) proprio per stimolare il ragazzo al raggiungimento dello scopo (dare l’ordine di non attaccare) e servirsi della motivazione personale dello stesso Blake-fratello maggiore (uno splendido George MacKay).
Termino qui’ la mia critica a “1917”, suggerendo, anzi asserendo – arrivati a questo punto – che il vero protagonista di questo fulmine a ciel sereno è l’Occhio MDP, lo sguardo che scruta da vicino questo ragazzo allucinato ma indomito, pronto a tutto (anche a costo della sospensione dell’incredulità, abilmente giostrata dalla sceneggiatrice e dal regista) pur di raggiungere i suoi obiettivi: la consegna all’ambiguo Colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch), che consiste nell’annullare l’attacco ai tedeschi; l’incontro col fratello del suo compagno di battaglia, Blake, con la promessa fatta di scrivere alla madre di entrambi; ma soprattutto, ed è mia opinione che è questo lo scopo ultimo del soggetto attivo soldato-uomo William, il riappaficicarsi con sé stesso attraverso la natura, quei campi sterminati di fiori e quell’albero di ciliegio, i quali gli consentono di trovare un riconciliamento con la memoria personale e familiare, chiudendo – finalmente – gli occhi (e il cerchio, come nella prima inquadratura del film) per sognare.
Per sognare più che un futuro migliore, perlomeno, questa volta, un futuro (im)possibile!
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