Per l’Unione europea, la fine dell’inizio?
L’analisi dell’Ambasciatore Guido Lenzi, sulla necessità di un cambio di passo dell’Unione Europea, sessant’anni dopo i Trattati di Roma, una ricorrenza che potrebbe segnare la fine della prima fase “economico-sociale” del cammino europeo e l’inizio dell’avventura dell’Europa “politica”.
Sessanta. Un’età rispettabile, quella dell’Unione europea, specie per le tre generazioni che l’hanno vissuta. L’anniversario appena commemorato non poteva certe essere limitato ad una, per quanto legittima, soddisfazione per il cammino percorso assieme, dovendosi invece anche prendere atto delle sfide e degli ostacoli disseminati lungo quello ancora da intraprendere.
Finché tutto andava bene, protetti dall’Alleanza atlantica, prosperi nel Mercato comune, l’opinione pubblica europea ha vissuto in una beata incoscienza. Ora che le cose si complicano, con l’imperante globalizzazione, la Russia assertiva, l’America protezionista, la ‘bella addormentata’ deve fare i conti con se stessa, riacquistare la consapevolezza delle proprie aspirazioni. Ritrovare in altre parole la propria collocazione in un mondo radicalmente cambiato, che non può fare a meno del contributo propositivo di un attore che, dopo aver fatto la Storia per secoli, appare oggi esausto.
Al Vertice di Roma, i Ventisette Capi di Stato e di Governo hanno infatti apposto la loro firma ad una “Dichiarazione sul futuro dell’Europa” che li impegnaa procedere oltre, “congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre nella medesima direzione”, verso lo stabilimento di politiche comuni in materia di sicurezza e difesa, bilancio ed economia, crescita e diritti sociali, commercio mondiale.Indicazioni programmatiche concrete, in presenza di responsabilità che l’Europa nel suo insieme, se vuole concorrere alla determinazione del proprio futuro, non può continuare ad eludere.
L’incedere dell’impresa comune è sempre avvenuto per sussulti, sospinto maggiormente da avvenimenti e sollecitazioni esterne piuttosto che da impulsi interni. L’avvio dell’integrazione europea fu imposto da Washington come condizione per le elargizioni del Piano Marshall; i Trattati di Roma furono sollecitati dalle duplici crisi di Suez e Budapest; quella di Praga del 1963 condusse l’allora Comunità ad adoperarsi attivamente nel processo di distensione con l’Est, apponendo anch’essa, a pieno titolo, la sua firma all’Atto Finale di Helsinki; la caduta del Muro ha determinato l’allargamento a Ventotto, con il conseguimento della sua ragione sociale, il che la ha resa politicamente maggiorenne; l’assertività di Putin e di altri ‘uomini forti’ si affianca infine oggi all’affermato isolazionismo di Trump nel costringerla a dotarsi degli strumenti indispensabili per poter ‘far da sé’.
In tutto ciò, c’è chi continua a lamentare il presunto “deficit democratico” che la affliggerebbe, il distacco fra le istituzioni di Bruxelles e i cittadini degli Stati membri. E’ pertanto proprio da questi ultimi che bisogna ripartire, per conseguire se non altro una più precisa pubblica consapevolezza del cammino percorso e di quello ancora da intraprendere. In una combinazione di ispirazione dall’alto e di stimoli dal basso, nella presa di coscienza che l’Unione ha bisogno degli Stati, tanto quanto questi ultimi, di questi tempi, non possono fare a meno di quella.
Che l’Unione, in altre parole, non è sovranazionale, gravante sugli Stati, bensì “ultra-statuale” (come sostiene Sabino Cassese nel suo “Chi Governa il Mondo?”): operante in una propria dimensione, parallela, che non esautora gli Stati. Ma essa difetta purtuttavia della visibilità, credibilitàe conseguente efficacia necessarie per influire sulla scena internazionale. Un’esigenza che richiede un più preciso senso di direzione e una più efficiente capacità decisionale, atti a farne valere lo specifico valore aggiunto.
L’Europa, lo sappiamo, non sarà mai una potenza militare (in proposito, due catastrofiche guerre ci hanno vaccinato per sempre), ma non può nemmeno rimanere soltanto lo spazio del Mercato unico e di Schengen (per quanto preziosi). La sua specifica natura di “potenza civile”, collaborativa invece che antagonistica, può servire più che mai da matrice, lievito, di quell’internazionalismo liberale che tanti odierni autocrati si accaniscono nello screditare.
“Uniti nella diversità” è la condizione che contraddistingue da sempre l’Europa. Non dissimile da quella che, al loro interno, caratterizza l’Italia, la Germania federale, il Belgio, la Spagna, la Mitteleuropa. Non di ostacolo dunque ad una coesistenza diversificata sono le distinzioni fra le nostre sensibilità e aspirazioni politiche che, per potersi realizzare, devono semmai utilmente convergere.
Le ‘cooperazioni strutturate rafforzate’ previste dal Trattato di Lisbona ‘sul funzionamento dell’Unione’, che il Vertice di Roma ha ribadito,non contraddicono l’unità di assieme. Come dice il rapporto pubblicato dall’Istituto Affari Internazionali, “l’integrazione differenziata appartiene già al DNA dell’Unione: è lo strumento per salvare il progetto europeo dalla disintegrazione, che traccia la strada da percorrere secondo un metodo di integrazione già consolidato”.
Per l’Europa, pertanto, non si tratta dell’inizio della fine che tanti profetizzano a causa della Brexit e delle ‘due velocità’, bensì semmai della fine dell’inizio. Di quell’inizio di matrice economico-sociale, necessariamente tecnocratico, sviluppatosi ‘di soppiatto’, affidato ai burocrati della Commissione a Bruxelles, cui sessant’anni fa erano state affidate le fondamenta dell’impresa comune. Il cui esito politico, implicito anche se sottaciuto, l’evoluzione delle circostanze internazionali non consente più di procrastinare.
Qui comincia pertanto l’avventura dell’Europa politica, necessariamente intergovernativa. Un cambio di passo affidato ai Governi, non più alla Commissione che, tutt’altro che esautorata, sarà chiamata ad assecondarli.
Infine, i nostri populisti anti-europei, nazionalisti, protezionisti, autarchici, vanno resi consapevoli del fatto che, a differenza di altre nazioni, l’Italia non può cullarsi nell’illusione di poter far a meno del collante europeo.
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