Per il dopo Napolitano la vera partita è tra Palazzo Chigi dominus e il sistema presidenziale
Tutto si sposta sul Quirinale: sul ruolo che dovrà avere la presidenza della Repubblica nel prossimo futuro. Non c’è dubbio, infatti, che in questi anni Napolitano abbia svolto un ruolo politico a tutto tondo, di vera e propria supplenza.
Difficile credere, proprio mentre Renzi ha improvvisamente riacceso il fuoco sotto il pentolone che deve cuocere la nuova legge elettorale, che la legislatura duri non si dice fino al 2018 – che fa ridere i polli – ma neppure l’intero 2015. Tanto meno ci crediamo noi che, fin dal giorno dopo del clamoroso risultato delle elezioni europee, abbiamo sostenuto la tesi che il capo del governo fosse intenzionato, avendone molti motivi, ad andare al più presto alle urne.
Siamo convinti che, dopo il 41%, le elezioni anticipate siano sempre state il perno della sua strategia politica, tanto che le avrebbe volentieri già fatte in autunno, se non avesse trovato la porta sbarrata al Quirinale. E abbiamo interpretato sia il crescendo rossiniano della polemica con la sinistra Pd e la Cgil, sia l’empasse parlamentare nella nomina dei membri della Corte Costituzionale, come altrettanti strumenti per aprire un varco al voto al più tardi a marzo, prima che l’Europa chieda – come chiederà – una verifica dei numeri messi con una certa faciloneria nelle tabelle della legge di Stabilità. “Signor Presidente”, immaginiamo volesse dire Renzi a Napolitano, “come vede il partito di maggioranza, che tra parentesi è il nostro, è spaccato, mentre il Parlamento è totalmente ingovernabile. Così non si può andare avanti, le chiedo di sciogliere le camere”.
Ora, però, la vera novità è che – supponendo che la nostra fantasia avesse un buon ancoraggio con la realtà – questo gioco non si potrà fare. Infatti, quale scopo volete potesse avere la notizia che il nostro amico Stefano Folli ha dato appena approdato a Repubblica dal Sole 24 Ore, e cioè che Napolitano ha ormai deciso di lasciare l’incarico, se non quello di mandare un avvertimento proprio sul tema delle elezioni anticipate? Conosciamo la serietà personale e lo scrupolo professionale di Folli anche solo per dubitare del fondamento di ciò che ha scritto, e nello stesso tempo non crediamo ai diversi motivi che sono stati indicati sul perché Napolitano sia intenzionato a dare le dimissioni: salute, età (a giugno prossimo compie 90 anni), delusione per le mancate riforme di quella classe politica che lui stesso ha bastonato (tra gli applausi delle vittime) al momento della sua rielezione. No, l’uscita di Napolitano – a questo punto certa ma in una data che individuerà a tempo debito, e di certo non in modo casuale – è una scelta politica ben precisa, tesa a sbarrare la strada al voto anticipato, almeno a breve. Una sorta di semestre bianco al contrario (“bimestre nero”, l’ha chiamato Michele Ainis, anche se sui due mesi non ci giureremmo), che impone prima la nomina del nuovo Capo dello Stato – con queste camere – e poi, eventualmente, le elezioni.
Dunque, tutto si sposta sul Quirinale. Ma non tanto sul nuovo inquilino, ma sul ruolo che dovrà avere la presidenza della Repubblica nel prossimo futuro. Non c’è dubbio, infatti, che in questi anni Napolitano abbia svolto un ruolo politico a tutto tondo, di vera e propria supplenza. Vedremo più in là nel tempo se la ragione sta dalla parte di coloro che questa supplenza l’hanno considerata una fortuna o di quelli che l’hanno bollata come una sciagura. Sta di fatto che, ora, a Seconda Repubblica defunta, le cose non possano più stare come prima, e il “dopo” apre una partita, assolutamente decisiva, in cui si determinerà il dna della Terza Repubblica, per ora ancora avvolta in un liquido amniotico che impedisce di distinguerne il sesso. Una partita in cui, apparentemente, si misureranno le velleità di tanti – nomi vecchi e nuovi, come suggeriscono le fantasiose ipotesi dei media – ma dove invece si manifesterà, con uno scontro sordo e durissimo, la contrapposizione tra il disegno di un premierato forte che concentri tutto il potere reale a palazzo Chigi e un presidenzialismo, più di stampo americano che francese, che consolidi il potere – specie nella politica europea, che sarà determinante – in capo al Quirinale.
Ovvio che Renzi voglia la prima soluzione, mentre s’immagina che i suoi avversari (espliciti, ma soprattutto impliciti) parteggino per la seconda. Solo che tanto l’uno quanto gli altri lo fanno in modo maldestro. Renzi, per esempio, invece di adottare in toto il modello tedesco – cancellierato, sbarramento al 5% senza l’obbrobrio del premio di maggioranza, sfiducia costruttiva – pretende di volerne solo l’aspetto che più gli aggrada, la figura debole del Capo dello Stato, e in più ha immaginato un riordino istituzionale a dir poco confuso che produce, come ha acutamente notato Paolo Cirino Pomicino sul Foglio, una democrazia “bella fuori e brutta dentro”. Peccato, perché per noi che vogliamo salvaguardare la funzione del Parlamento, preferiamo i partiti (con tutti i loro difetti) al leaderismo (che inevitabilmente fa rima con populismo) e nello stesso tempo ci proponiamo di dare al governo la forza e la velocità decisionale necessarie per stare nel mondo globalizzato, il sistema sperimentato con efficacia in Germania ci continua a sembrare il migliore.
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Antonio Carioti – Società Aperta
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