ePrivacy and GPDR Cookie Consent by TermsFeed Generator

Napoli incanta e fa innamorare per la semplicità nel presentare la sua diversità.

Da napoletana non posso che amare la mia Città con tutte le sue contraddizioni e, naturalmente, non posso non scagliarmi contro la gestione sbagliata o mancata di tante cose che, agli occhi di tutti ma soprattutto di chi abita la Città, non vanno.

Poi un giorno mi chiama un amico e mi dice di leggere un artico di un giornalista, Marco Proietti Mancini che parla della nostra Città come se in quel momento fosse stato adottato dalla famiglia che è Napoli e che ti spiega che le cose qui sono un pò diverse e che anche alcune regole lavorative davanti ad un’umanità ancora sentita e palpitante, vengono arginate.

Mi fa piacere riportare interamente l’articolo.

screenshot_2023-12-11-13-08-16-43_a23b203fd3aafc6dcb84e438dda678b6

«A Napoli al ristorante ho ordinato “una braciola” e quando mi sono visto arrivare un involtino in umido ho chiesto al cameriere “ma io avevo chiesto una braciola…” e quello mi ha risposto “e questa cos’è?”.

Comunque l’ho mangiata ed era una meraviglia, buona come poche altre cose che ho mangiato.

A Napoli alla cassa del bar ho visto una scatola di vetro piena di cioccolatini a forma di bacio Perugina, incartati nella carta stagnola uno per uno, ho chiesto “ma sono Baci?” e la signora mi ha risposto “certo che sono baci, li facciamo proprio noi!” ed erano buonissimi.

A Napoli sono entrato in una tavola calda, saranno state le quattro del pomeriggio, volevo prendere qualcosa da riportare a mio figlio prima di ripartire, ma avevano finito tutto.

Ho chiesto “avete qualcosa di pronto?” il marito della cuoca mi ha risposto “e che problema c’è, glielo prontiamo”.

Poi è uscita la cuoca e mi ha detto “le faccio una frittata di maccheroni, qualche crocché e un po’ di pasta cresciuta, vabbuò?!”.

Io le ho detto “ma quanto tempo ci vuole?” e lei ancora “e che fretta avete, vi sedete qui e vi fate compagnia con mio marito, vi bevete una birra intanto che aspettate”

E dopo una mezz’ora io conoscevo tutta la storia della famiglia, fino a quell’infame di uno dei cugini, che San Gennaro gli faccia uscire uno sbocco di sangue. Marcio.

In compenso la roba era buonissima e m’è sembrato che si facessero pagare per farmi un favore, perché pareva mi volessero regalare tutto.

A Napoli ho mangiato una cosa che si chiama “genovese” e l’ho digerita dopo tre giorni, cioè no, a digerire l’ho digerita subito, è che dopo tre giorni ancora mi pareva di averne qualche pezzetto sulla barba per come mi sentivo avvolto dal profumo.

A Napoli mi hanno servito un caffè con le tazzina che mi scottava le labbra e non ho dovuto manco chiedere il bicchiere d’acqua, perché me l’hanno messo davanti direttamente insieme al caffè, però il barista non si fidava, aveva sentito l’accento romano e voleva vedere se l’acqua la bevevo prima o dopo il caffè, pareva che trattenesse il fiato per l’ansia. Quando ha visto che l’ho bevuta prima ha sorriso e io mi sono sentito come se avessi superato un esame all’università.

A Napoli sono andato a pranzo con due amici napoletani e hanno ordinato “pasta e patate” e poi momenti si scannano perché uno diceva “la provola ci vuole” e uno diceva “la provola non ci vuole” e io stavo zitto e temevo che alla fine mi menassero a me.

Ma quando è arrivata la mia pizza con i friarielli hanno fatto pace e mi hanno fatto tutto un corso su come va preparata, in che punto del forno va messa perché si cuocia bene, come la ricotta debba fare da ripieno del cornicione, cose così. (La pizza era squisita e pure la loro pasta e patate, che per la cronaca la provola c’era).

A Napoli ho mangiato il casatiello e i ciccioli, una parmigiana di melanzane che quando ho chiesto “ma le melanzane come sono cotte?” mi volevano cacciare dal ristorante e farmi girare con un cartello attaccato al collo con scritto “ha chiesto come sono cotte le melanzane della parmigiana!”.

Ho scoperto che le ciambelle con lo zucchero le chiamano “graffe” e guai pure quelle se ti azzardi a dire “ma sono cotte al forno?”.

Ho scoperto che le sfogliatelle e le ricce sono due cose diverse, ma comunque se vuoi mangiare quelle più buone devi andare in un forno che sta a “vico Ferrovia” che se gli passi davanti non gli daresti una lira. Perché a Napoli quello che ti mangi conta più di dove lo mangi.

A Napoli ho capito che mangiare è una religione, ha i suoi riti e le sue cerimonie, è un atto sacro e mangiare da soli è triste, e se stai al tavolo da solo il cameriere si preoccupa e ti viene a chiedere dieci volte “come va? come state?” e dopo viene pure la padrona del ristorante e poi pure suo marito e ti mandano pure i figli, perché tante volte dovessi sentirti triste, non sia mai, come te lo gusti il mangiare?

E poi mi dite perché amo Napoli? Ma come fate voi, a non amarla? Come?»

Grazie Marco per la tua sensibilità percettiva.

Lisa Muto

You must be logged in to post a comment Login