L’inizio della fine?
La riflessione dell’Ambasciatore Guido Lenzi sull’esito del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
Non siamo, come sommariamente si dice, all’inizio della fine dell’Unione Europea. Semmai alla fine dell’inizio, di quel lungo periodo in cui il progetto comune è andato avanti quasi automaticamente: prima economicamente, per l’impulso della burocrazia alla quale è stato affidato il mercato comune, e poi politicamente, al momento dell’allargamento all’Est europeo emancipatosi dalla presa sovietica.
Presi alla sprovvista dalla caduta del Muro, gli allora Quindici esitarono a trarne immediatamente le conseguenze: due referendum, in Francia e Olanda, Stati fondatori, bloccarono l’approvazione di una Costituzione che avrebbe fissato il quadro giuridico di una Unione che si era sviluppata fino ad allora gradatamente, pragmaticamente, surrettiziamente, ‘sulla base di fatti concreti”, come aveva previsto Monnet.
Rassegnandosi alla presunta volontà popolare, il Trattato di Lisbona provvide a delimitare e collegare più chiaramente le rispettive funzioni di Commissione, Consiglio e Parlamento Europeo, disponendo inoltre, in base al principio della sussidiarietà, una restituzione agli Stati e ai loro parlamenti di funzioni non essenziali all’Unione. Il che non ha impedito ai governi nazionali di riversare su Bruxelles la responsabilità di ogni loro disfunzione.
Così facendo, nelle loro diverse situazioni interne, prima la Grecia, poi altri fra i quali l’Italia, e ora il Regno Unito hanno fornito alimento alla disaffezione popolare nei confronti del progetto unitario, tradottasi nella denuncia di un presunto ‘deficit democratico europeo’, un argomento che si mangia la coda. Il referendum britannico ha reso palese il disagio che pervade le nostre opinioni pubbliche, afflitte dalla generale crisi economica che i singoli Stati non sono palesemente in grado di arginare.
Se ne dovrebbe dedurre che il momento è arrivato di andare oltre, verso quella ‘sempre più stretta unione’. Cambiando marcia, passando dai meccanismi automatici, burocratici, della Commissione a quelli propulsivi, politici, propri del Consiglio dove siedono i singoli governi. Nel perseguimento non del non sempre necessario consenso di tutti i Ventisette, bensì di ‘chi ci sta’. A velocità differenziate piuttosto che a geometrie variabili; mediante quelle ‘cooperazioni strutturate rafforzate’ che Lisbona consente e le circostanze attuali sollecitano. Verso una Europa che non sia più meramente uno spazio economico-sociale, né una per ora improponibile potenza militare, bensì quell’attore internazionale coerente e credibile.
Non di metamorfosi si deve trattare, bensì di una ricalibratura dei comuni propositi. Con quel rinnovato impulso politico che l’Italia, più di altri, dovrebbe essere geneticamente in grado di fornire. Come fece nel ’57 dopo il fallimento della CED, al momento della ‘sedia vuota’ francese, nel con l’Atto Unico che aprì la strada alla cooperazione politica. A differenza di Francia, Germania, Spagna che continuano a ritenere di poter far da sé, l’Italia, da sempre, necessita del puntello europeo tanto per la sua coesione interna quanto per la su proiezione esterna. Ora come allora, all’Italia più che agli altri si presenta l’occasione di far valere le proprie convinzioni ed argomentazioni, di affermarsi come interlocutore politico influente se non come attore determinante nel riavviare il motore europeo.
(L’altro ormeggio per noi essenziale che, con la defezione britannica, rischiamo di perdere è quello transatlantico. Un sentimento anti-americano torna a manifestarsi nel nostro dibattito politico interno, che può aver perso i connotati ideologici ma non la rissosità che continua a contraddistinguerlo.)
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