La tragica solitudine dell’autocrate
La riflessione di Guido Lenzi sul conflitto in Ucraina e le ripercussioni sulle relazioni internazionali.
“E’ più facile fare la guerra che la pace”
Clémenceau (1919)
Difficile, durante le mie lezioni di ‘Diplomazia nel mondo globale’ all’Università di Bologna, mi è stato mantenere l’attenzione dei miei studenti, nati prima della caduta del Muro, sulle componenti e le implicazioni della fase di transizione che i rapporti internazionali stanno attraversando. Quel che accade in Ucraina mi semplificherà ormai il compito.
George Kennan, promotore del ‘contenimento’ della Russia sovietica, ammoniva che “è afflitta da un congenito utilizzo dell’insicurezza, radicato essenzialmente sull’istinto di sopravvivenza in un mondo al quale si è poco assuefatta”. Nell’immediato post-Guerra fredda, l’ex Presidente estone Toomas Ilves argomentava che “in un mondo post-moderno, la Russia rimane pre-moderna”; fatica, cioè, ad adeguarsi all’evoluzione del mondo circostante. Alla luce di quel che sta accadendo, Robert Kagan osserva oggi che “per restaurare la passata grandezza della Russia, Putin ritiene di dover tornare a quando nessuno era al sicuro”. Donde la propensione di Mosca ad sfruttare, se non generare, le situazioni di instabilità lungo il proprio auto-proclamato ‘estero vicino’, in Siria, in Libia, nel Sahel africano, nei Balcani, per inserirvisi a proprio vantaggio.
Un atteggiamento manifestatosi con particolare evidenza da quando il tentativo di Gorbaciov, dopo la caduta del Muro, di contribuire alla reintegrazione del continente fallì miseramente per l’antagonismo di Eltsin, e Putin decise infine di procedere a ritroso, voltando le spalle all’Europa Ispirato dall’ideologo di corte Alexander Dugin, Putin afferma infatti che la Russia è ‘non europea, bensì euroasiatica’; presumibilmente per non perdere, nei confronti di Pechino, la titolarità delle sue immense distese siberiane.
I corni del dilemma dal quale la Russia non riesce a districarsi appaiono quindi essere da un lato l’Europa, dei cui valori teme la contaminazione, e dall’altro la Cina, che va diventando strategicamente predominante. Putin continua pertanto a rivolgersi a Washington per recuperare quello status di superpotenza di cui disponeva ai tempi della Guerra fredda, ma che un’America in regressione non può più conferirgli. Del quale disporrebbe invece nella sua qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, il cui funzionamento il suo veto ha invece sistematicamente bloccato.
L’autocrate del Cremlino si era pertanto sinora affidato ad un’opera d’interdizione dell’operato altrui, dalla Siria, alla Libia, al Sahel, ai Balcani, oltre che nell’intera fascia di crisi irrisolte, ‘congelate’, che la circondano, di preferenza per il tramite di propri contractor dall’appellativo wagneriano, non riconducibili direttamente al Governo. Ricorrendovi per otto anni nello stesso Donbass ucraino. Trascinato dalla forza cinetica (altro che giocatore di scacchi, con le loro rigorose regole), ha ora compiuto il passo estremo, che lo colloca fra gli stati ribelli a quella ricomposizione dell’ordinamento internazionale che i tempi richiedono. Trattando all’Ucraina, cui nega lo status di nazione sovrana, alla stregua della regione ribelle della Cecenia.
Se la Storia antica andasse veramente presa come parametro di riferimento, si potrebbe sostenere che, con la conversione di Vladimiro nel lontano 998, è stata Kiev, non Mosca, la culla di una Russia che, dichiarandosi ‘Terza Roma’, ha poi diluito la sua impronta occidentale estendendosi nelle steppe asiatiche fino a Vladivostok, annettendo formalmente l’Ucraina alla fine del Settecento, sotto Caterina. A differenza della Russia, l’Ucraina, è stata pertanto segnata dall’Europa in virtù della sua antica appartenenza alla Confederazione polacco-lituana e all’Impero austro-ungarico. Un collegamento rafforzato nel secondo dopoguerra con lo spostamento della frontiera occidentale ucraina a spese della Polonia (e conseguentemente della Germania). Una distinzione che Mosca aveva persino utilizzato per pretendere e ottenere, al pari della Bielorussia, la concessione un seggio separato ucraino alle Nazioni Unite; che la quasi unanimità al referendum popolare al momento della dissoluzione dell’URSS aveva consacrato; ma che il mito della ‘Madre Russia’ (Russky Mir, Novorossia) esaltato da Putin cancella a suon di bombe. L’Anschluss di Hitler con l’Austria, basato sull’analoga pretesa, fu ben altrimenti architettato; ma si era al centro del continente, non alla sua periferia.
Eltsin aveva tentato di salvare il salvabile, nel dicembre del 1991, quando, assieme ai Presidenti delle Repubbliche (slave) di Bielorussia e, appunto, Ucraina, decretò la fine dell’Unione Sovietica, sostituita da una Confederazione di Stati Indipendenti (CSI), costringendo Gorbaciov a prenderne atto dimettendosi da Presidente dell’URSS. E’ a Lenin (Lenin!) che Putin ha sommariamente rivolto l’accusa di aver “disfatto la nostra unità”, riconoscendo l’Ucraina come Repubblica separata. Rinnegando di colpo l’intera esperienza bolscevica, per presentarsi, si direbbe, come novello Zar.
Comunque vada a finire, l’aggressione al ‘popolo fratello’, piuttosto che ai tempi del dopoguerra, con il dilemma fra il containment di Kennan e il roll-back di Dulles, ci riporta alla situazione continentale dell’immediato post-Muro. Quando furono tracciate le linee di quell’architettura di sicurezza che la Russia, dopo averne distrutto le fondamenta, oggi pretende di stabilire.
Alla diplomazia, ancora una volta, si vorrebbe affidare l’arduo compito di ricostruirla da zero. Stretta fra l’arroganza dell’uno e l’imprevidenza degli altri, il suo spazio di manovra si è ristretto. I punti di riferimento tuttavia non mancano. Ma la prima cosa da fare è rimettere assieme i pezzi dell’avvenuta disintegrazione: identificandoli con precisione, per poterne analizzare la consistenza, liberarli dai preconcetti, ristabilendone infine le connessioni. Con il necessario più ampio concorso possibile, specie di Stati non ‘occidentali’, giacché si tratta di ricomporre, non un ordine, bensì un sistema, un ordinamento internazionale ampiamente condivisibile.
Iniziando, dopo tanti anni di relativismo e indifferenza, con lo sgombrare il campo dai pregiudizi (anche nostrani) e sfatare le tante falsità, come quelle:
– che la NATO avrebbe dovuto dissolversi alla fine della Guerra fredda (trascurando le preoccupazioni degli ex membri del Patto di Varsavia, in una situazione geo-politica radicalmente mutata);
– che l’America abbia contravvenuto alla promessa di non schierare le forze NATO in posizione avanzata (che Bush fece a Gorbaciov proprio per scongiurare che la riunificazione della Germania potesse comportare la disintegrazione dell’URSS, cosa che poi avvenne per iniziativa di Eltsin, alterando radicalmente la situazione geo-politica continentale: pacta sunt servanda, lo sappiamo, purché rebus sic stantibus);
– che l’allargamento della NATO abbia accerchiato la Russia (mentre, da organizzazione difensiva qual’è, non ha reagito agli interventi russi in Georgia nel 2008, nel Donbass e in Crimea nel 2014);
– che, inversamente, l’accondiscendenza occidentale sia stato un segnale di debolezza, peggio di indifferenza, invece che di responsabile prudenza;
– che le sanzioni non siano efficaci (anche se, ai sensi della stessa Carta delle Nazioni Unite, rimangono l’alternativa all’uso della forza);
– che una ‘nuova architettura di sicurezza’ sia necessaria (come se non fossa già stata tracciata in ambito OSCE);
– che i valori occidentali, infine, non possano applicarsi ad altre nazioni (per un preteso ‘conflitto di civiltà’, implicitamente razzista).
C’eravamo tanto amati!
Pensavamo che fosse finalmente arrivata la ‘fine della Storia’, della Guerra fredda, degli equilibri di potenza, delle sovranità nazionali assolute. Putin ha invece dimostrato che le lezioni della Storia faticano ad affermarsi.
Il vittimismo del Cremlino, fondato sull’argomentazione che l’Occidente l’abbia deliberatamente accerchiata e marginalizzata, denota paradossalmente quanto sia rimasta estranea all’evoluzione geo-politica del continente (una mia cronistoria, pubblicata su questa rivista nell’autunno del 2015, lo documenta).
Con due proposte scritte, rivolte alla NATO e al Presidente americano Biden, Mosca aveva inizialmente espresso l’esigenza di stabilire un’architettura di sicurezza europea giuridicamente vincolante. Cammin facendo, Putin ha poi alterato le ragioni del suo comportamento: dalla necessità di un’operazione speciale di ’peacekeeping’ in difesa dei russofoni nel Donbass (che occupa da otto anni), all’affermazione che la nazione ucraina non esiste, all’estrema imputazione all’Occidente, scarsamente documentabile, di voler minacciare la Russia. Invocando la legittima difesa ai sensi della carta dell’ONU. Si è lanciato in un’aggressione militare non provocata che, il che è ancor più grave, invece delle forze armate ucraine, prende di mira la popolazione civile. Una violazione dello jus in bello, che costituisce un crimine di guerra manifesto, ai sensi della Convenzione di Ginevra adottata nel 1949 alla luce delle nefandezze del Nazismo.
Le ‘guerre ibride’, a bassa intensità, che sembravano dover diventare la norma, sono state scavalcate dal ritorno a quella classica, nell’anacronistica presunzione di poter far affidamento sull’uso della forza che gli eventi in Irak, Afghanistan, Libia, Siria hanno dimostrato non essere più decisive. Indifferente a qualsiasi calcolo dei relativi costi e benefici, politici e economici Lo stesso principio della dissuasione nucleare, riesumato da minacciose dichiarazioni di sfida all’intero Occidente, viene utilizzato non più come deterrente, bensì come minaccia.
Il riconoscimento delle regioni orientali secessioniste ucraine occupate dal 2014 al momento dell’annessione della Crimea (come Mosca aveva già fatto nel 2008 nelle regioni georgiane del Sud Ossezia e dell’Abkhazia) non avrebbe cambiato di per sé le carte in tavola: la NATO, organizzazione difensiva del proprio ambito territoriale, non avrebbe potuto ancora una volta reagire. Quel che è veramente incomprensibile, è che Putin abbia deciso di andare oltre. In aperta violazione del diritto internazionale: non soltanto degli accordi di Minsk del 2014-15, ma soprattutto di quelli, anch’essi quadripartiti, di Budapest del 1994, quando l’Ucraina (assieme alla Bielorussia e il Kazakhstan) rinunciò all’arsenale nucleare dislocato sul suo territorio, in cambio dell’assicurazione che la sua indipendenza e integrità territoriale sarebbe stata rispettata. In un’implicita sua neutralizzazione, mentre la Russia oggi di fatto la rimilitarizza.
Da un punto di vista strettamente strategico, il dichiarato proposito di ricostituire con la forza l’originario nucleo slavo della Russia storica, circondato da una serie di stati satelliti, si risolverebbe nell’abolizione della fascia di Stati in condizioni critiche, dalla Bielorussia all’Armenia, della cui instabilità si era finora avvalso per tenere l’Occidente a distanza.
Attoniti, dobbiamo invece constatare come, nell’aggredire i dichiarati ‘fratelli’ in Ucraina, la Russia ha stracciato l’intero tessuto dei rapporti intereuropei: separandoci in casa, quando ci eravamo convinti di essere giunti alla ‘fine della Storia’; spazzando via ogni residua illusione di poter stabilire un qualche modus vivendi continentale; vanificando la stessa proposta avanzata da Mosca di una ‘nuova architettura di sicurezza europea’; costringendo l’America a rimanere in Europa; mettendo in dubbio la ventilata possibilità di una ‘autonomia strategica’ dell’Unione europea. Spazzando via ogni prospettiva di quel reset che fu proposto ai tempi di Obama!
Se proprio vogliamo continuare a batterci il petto, dobbiamo quindi riconoscere che la colpa dell’Occidente è stata semmai di aver preso alla lettera le dichiarate intenzioni di Gorbaciov, che aveva invocato la ‘casa comune europea’, e quello di Eltsin, al quale si deve l’originario riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina, che decretò la dissoluzione dell’URSS. Non di malevolenza si può imputare il comportamento euro-americano; semmai di radicata fiducia nella ‘fine della Storia’. Non deve pertanto sorprendere che, nella sua prolungata, farneticante, pubblica concione, erigendosi a restauratore dell’antica Rus’ al punto di ritenere necessario offendere la memoria di Lenin, Putin abbia ignorato l’uno e l’altro, persino colui al quale è debitore della sua investitura.
Per l’Occidente, le sanzioni, rimangono l’unica alternativa alla guerra, previste come sono proprio a tal fine dall’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite. Rese ancor più legittime dal fatto che finiscono col ledere anche chi le decreta, esse vengono deliberate soprattutto a tutela dell’integrità del sistema internazionale, costituendo d’altronde la presa d’atto dell’auto-esclusione russa dalla comunità internazionale. La loro efficacia dissuasiva e persuasiva rimane da dimostrare, giacché Mosca non ha battuto ciglio nemmeno alla sua esclusione dal G8 dopo l’annessione della Crimea; ma sono comunque servite a cementare la NATO, l’Unione europea, gli stessi schieramenti politici nazionali. Persino la Turchia pare intenzionata a reintegrare l’Alleanza atlantica, nel chiudere Stretti ai sensi della Convenzione di Montreux (oltre a rifornire l’Ucraina dei suoi droni). Meglio tardi che mai.
Quale via d’uscita?
Richelieu, che se ne intendeva, diceva che “negoziare continuamente, apertamente e segretamente, ovunque, persino laddove non si ottengano risultati immediati e ancor più dove non traspaiano prospettive future, è cosa assolutamente necessaria per il bene degli Stati.”. Il compito della diplomazia è sempre stato di scovare l’interlocutore determinante, all’intersezione dei processi decisionali dello Stato in questione, e convincerlo dell’utilità di una soluzione reciprocamente, anche se parzialmente, soddisfacente.
Un’impresa che con la Russia si è sempre rivelata defatigante e sterile, come ebbero a scoprire Kennan e Acheson nell’immediato dopoguerra, e ha poi potuto continuare a constatare chiunque abbia avuto a che fare con Mosca. Con le sole eccezioni dei negoziati sul disarmo, di quelli che hanno condotto all’Atto Finale di Helsinki e del periodo di ‘perestroika’ di Gorbaciov. Ad evitare il consolidarsi della nuova contrapposizione fra Est e Ovest, è pertanto di tali argomenti che dobbiamo avvalerci per ricondurre Mosca sulla retta via. Iniziando necessariamente dall’instaurazione di un ‘cessate il fuoco’.
Non possiamo comunque tornare alla ripartizione delle sfere d’influenza decisa a Yalta, né all’accettazione di un multipolarismo, confondendolo con il multilateralismo giacché comporterebbe un ritorno agli equilibri di potenza di proporzioni macroscopiche. Né purtroppo ormai più alla collaborazione quadripartita nel ‘Gruppo di Normandia’ o gli accordi di Minsk, ai quali ci eravamo tutti pigramente affidati. La via d’uscita va necessariamente impostata nel recupero di principi di comportamento condivisi che consentano di ristabilire le ‘misure di fiducia’. Con il ritorno agli impegni presi a Helsinki nel lontano 1975, da recuperare dall’abbandono nel quale sono rimasti dopo l’avvento Putin. A quelle responsabilità condivise, indispensabili per affrontare persino il rinnovo degli accordi di disarmo nucleare (START) e convenzionale (CFE), che l’attuale conflitto in Ucraina ha rimesso in causa.
Il problema è però che, da tempo, distante non soltanto dal mondo esterno ma dai suoi stessi collaboratori, Putin non rappresenta più quell’interlocutore affidabile senza il quale la diplomazia non può operare. Ignorando il flusso della Storia, sordo all’evoluzione del mondo circostante, l’autocrate del Cremlino si è ora infilato contromano in una strada senza uscita, dalla quale gli sarà difficile fare marcia indietro. Il problema è che la Federazione russa è oggi retta, non più dalla collegialità di un Politburo dei tempi dell’Unione sovietica, bensì da meccanismi decisionali imbarazzanti che la scenografia delle riunioni di governo ha chiaramente evidenziato; così come il fatto che lo sperimentato Ministro degli esteri sia visibilmente costretto a leggere testi preconfezionati. Isolato dal suo stesso ‘cerchio magico’, non rimane da sperare che, nelle segrete del Cremlino, il suo atteggiamento lo abbia reso vulnerabile; al pari di quanto accadde con la crisi di Cuba per Krusciov e con le intemperanze etiliche ad Eltsin. L’eventualità di una rivolta di palazzo dipenderà non dalle manifestazioni di piazza della popolazione civile, bensì semmai dalla reazione degli oligarchi direttamente colpiti dalle sanzioni o, meglio, da un Esercito esasperato dall’ennesima missione impossibile.
Importante per il momento è che l’Unione europea abbia ritrovato le ragioni della sua esistenza, che le potenzialità dell’OSCE siano state riscoperte, e che, alle Nazioni Unite, il comportamento della Russia sia stato inequivocabilmente denunciato. L’immediato risultato dell’avventata iniziativa di Putin è infatti di aver compattato un Occidente che stava diventando rinunciatario, stimolando l’integrazione della politica estera e di sicurezza dell’Unione europea, nel solito rapporto fra il bastone americano e la carota europea, fra deterrenza militare e dialogo politico, che Putin contava di riuscire a dissociare. Mentre ancora e sempre è dal rapporto euro-atlantico che dipende l’integrità dell’ordinamento internazionale (da chi altro sennò?), a beneficio di tutti.
Ci siamo a lungo chiesti a che cosa servano le Nazioni Unite. Lo abbiamo scoperto, non nel Consiglio di Sicurezza paralizzato dal veto russo, bensì con il voto dei due terzi dell’Assemblea Generale che, registrando l’avvenuta aggressione, ha ingiunto a Mosca di “arrestarsi e ritirarsi”. La Russia ha raccolto la misera messe di Bielorussia, Nord Corea, Siria ed Eritrea; mentre l’astensione di Cina, India, paesi arabi e altri rappresentanti del residuo ‘terzo mondo’, più che indifferenza, rappresenta la loro riluttanza a lasciarsi coinvolgere in una questione che riguarda gli europei. Un risultato poco determinante sul piano pratico, ma indicativo del sussulto della coscienza di più di due terzi della comunità mondiale nei confronti di un avvenimento che minaccia l’intero sistema dei rapporti internazionali.
Pur ponendosi in contrapposizione all’Occidente rispetto al sistema internazionale vigente, la Cina non ha interesse a veder destabilizzata la situazione della quale ha tanto beneficiato negli ultimi anni. In collegamento in rete con gli europei Macron e Scholz, Xi si è infatti risolto a dichiarare pubblicamente trattarsi di una situazione bellica che ha prodotto sanzioni “rischiando di compromettere il sistema economico mondiale”. L’“amicizia senza limiti” proclamata nell’incontro con Putin in occasione delle Olimpiadi invernali non potrà dar luogo al temuto Asse fra Mosca e Pechino. Il rischio è piuttosto che Mosca, prendendo le distanze dall’Occidente, finisca nelle grinfie del Dragone orientale, ben più consistenti di quelle, presunte, dell’Occidente. Inoltre, se può vantarsi di aver ripreso il controllo della Bielorussia (e del Kazakhstan), altrettanto non può dire del Caucaso, che persino Ankara gli contende.
Si va pertanto verificando un ritorno alle condizioni di partenza continentali, a seguito della fine della Guerra fredda: con una Russia indebolita e un Occidente rinfrancato. Un passo indietro, purtroppo. Svanita appare per ora l’ipotesi di quella ‘nuova architettura di sicurezza europea’ originariamente pretesa da Mosca, che andrebbe affrontata nell’ambito del codice comportamentale concordato ad Helsinki nel 1975, con l’indispensabile partecipazione degli alleati transatlantici americano e canadese. E’ però a lasciarsi coinvolgere in una soluzione paneuropea che Putin obietta, escludendo per il momento l’auspicato fattivo contributo dell’Unione. Il Parlamento europeo si è espresso, dichiarando che l’Ucraina può avvalersi dello status di ‘paese candidato’ all’adesione (estendendone la prospettiva anche a Georgia e Moldova). Ma fu proprio il progetto di associazione (non di adesione) dell’Ucraina all’Europa che determinò nel 2014 l’irrigidimento di Mosca.
E’ la neutralizzazione e smilitarizzazione dell’Ucraina che Mosca pretende e che molti considerano come l’unica soluzione del groviglio. Condizioni che non potranno essere imposta dall’esterno, come avvenne con l’Austria, e che l’eventuale adesione all’Unione europea, come per l’Austria, non precluderebbe. Tanto più che l’Art. 42 del Trattato di Lisbona dispone una qualche clausola di difesa collettiva. Ipotesi che rimangono comunque improponibili in costanza dell’invasione russa. Ma che non impedirebbero soluzioni pragmatiche, analoghe al rafforzamento dei legami di Finlandia e Svezia con la NATO.
E l’Italia?
In Italia traspare il torpore di una coscienza civica, nel prolungato suo distacco dalle cose di questo mondo. Sorprendente, o forse no, è quanto il dibattito nazionale continui a ruotare attorno alle responsabilità dell’America, della NATO (e implicitamente nostre, succubi come diciamo di essere di ambedue), invece che su quelle di chi ha prodotto e continua ad alimentare la tensione che stiamo vivendo. In un’inversione dell’onere della prova, come ai tempi della propaganda comunista della quale, a differenza dei principali partner europei ai quali vorremmo commisurarci, dimostriamo di essere ancora infetti.
Un esempio fra i tanti (di un molto mediatico esperto… di Storia dell’arte!): “l’invasione criminale dell’Ucraina, decisa dal tiranno Putin, ci ha rimesso di fronte alla guerra. La responsabilità grave di America e NATO, l’assenza dell’Europa nel non aver preparato la pace ma la guerra, ci fa sentire non innocenti, ma coinvolti”. Né di qua né di là, nella consueta nostra equidistanza, ‘equivicinanza’, ostinata non belligeranza.
Una nazione perennemente inconsapevole, confusa, indifferente al proprio stesso destino, pressapochista, indiscriminatamente pacifista, succube delle iniziative altrui dovrà comunque ora rassegnarsi ad inverni particolarmente rigidi, all’incremento delle bollette energetiche, a non poter continuare a commerciare con gli amici russi. L’ineluttabilità delle sanzioni è servita a renderci finalmente conto della realtà che ci circonda. Aggiungendosi alle condizionalità europee del Piano Nazionale di ripresa e resilienza, nel ricompattare una coalizione governativa alquanto eterogenea. “L’Italia non intende voltarsi dall’altra parte” ha detto, a scanso di equivoci, il nostro Primo Ministro.
Chi ha vissuto ad occhi aperti, invece che distrattamente, nell’indifferenza, quel che è accaduto dalla caduta del Muro sa che la NATO ha assicurato il mantenimento dell’impegno americano al fianco degli europei, in funzione stabilizzante nel laborioso riassetto degli equilibri continentali. Accogliendo in particolare gli Stati già membri del Patto di Varsavia (non le Repubbliche dell’ex-Urss, con la sola eccezione dei Baltici, la cui inclusione nell’Unione sovietica l’Occidente non ha mai riconosciuto), per rassicurare tanto loro quanto la stessa Unione europea rispetto ai temuti ritorni di fiamma di Mosca, che si stanno infatti verificando.
Conclusioni provvisorie
Alla fine del secondo conflitto mondiale, Raymond Aron parlò di ‘guerra improbabile, pace impossibile’. Tale presunzione, che ha retto l’intera Guerra fredda, è ora drammaticamente svanita. Invece di affermare la propria presenza in un miglior ordinamento di sicurezza continentale, Putin se ne è drasticamente escluso.
Mosca afferma di essersi trattato, in Ucraina, non di una guerra per scelta, ma per necessità, dovendosi difendere dalle mire aggressive dell’Occidente; aggravando le sue pretese con l’affermazione che l’Ucraina non è una nazione distinta dalla Russia. Al punto da escludere ogni mediazione (interferenza?) esterna. In una riedizione della ‘dottrina Breznev’ della sovranità limitata. Dichiarando di volerla smilitarizzare e ‘de-nazificare’, si appella a quel che afferma essere stato l’asserito analogo comportamento occidentale in Jugoslavia (punctum semper dolens) nel 1999 e in Irak nel 2003.
Trent’anni fa Saddam Hussein invadeva il Kuwait, dichiarando trattarsi di territorio separato da riannettere all’Irak. Il Consiglio di Sicurezza si pronunciò all’unanimità contro l’evidente aggressione. Quel che accade in Ucraina non ha suscitato la medesima reazione, per l’ovvia ostruzione della Russia nell’organo esecutivo delle Nazioni Unite. E’ al relativo status di membro permanente, non ad altro, che Mosca dovrebbe associare la qualifica di ‘superpotenza’ che rivendica, nell’assumersi la connessa responsabilità di assicurare il rispetto del sistema internazionale, non bloccandone d’autorità il funzionamento.
Chi ha vissuto distrattamente le conseguenze della caduta del Muro; chi sorvola sulla circostanza che la promessa di non allargare la NATO fu fatta a Gorbaciov per scongiurare il disfacimento dell’URSS, che poi invece avvenne; chi persino assimila l’attuale situazione attorno all’Ucraina con quella degli anni Sessanta a Cuba; chi si disinteressa anche del futuro dell’Unione europea; trascura quanto Putin abbia riportato l’Europa ai tempi della Guerra fredda.
Non è più soltanto della competizione fra democrazia e autoritarismo che si tratta, bensì dell’integrità dell’intero sistema internazionale, basato sulla coabitazione in un mondo inesorabilmente globalizzato. Al quale Putin fatica palesemente (e pateticamente) ad adattarsi, stringendo il nodo gordiano continentale, invece di contribuire a scioglierlo. La situazione non può pertanto essere affrontata che multilateralmente, non nell’antico contesto Est-Ovest, fra Mosca e Washington, che l’autocrate vorrebbe restaurare, né ad opera dell’Unione europea con la quale ha ostentatamente dimostrato di rifiutare il confronto, bensì necessariamente nell’ambito paneuropeo impostato cinquant’anni fa ad Helsinki, al quale l’America partecipa su di un piano di parità.
Nell’altrettanto critico 2014, in un articolo al quale molti oggi si aggrappano, l’oggi ultranovantenne Kissinger argomentava che bisognava mirare ad un esito ‘equilibratamente insoddisfacente’. Che andrebbe ora impostato su una neutralizzazione dell’Ucraina, non imposta come avvenne per l’Austria nel 1945, né dichiarata unilateralmente come la Finlandia nel 1941, bensì costruita in quella ‘nuova architettura di sicurezza continentale’ che Mosca ha prima proposto e poi stracciato.
Le ripercussioni dell’aggressione militare all’Ucraina sono per ora continentali, ma l’esito finale dipenderà dal grado di indignazione dell’intera comunità internazionale. Alla quale la crisi ucraina chiede di esistere, secondo la presunzione che regge il sistema delle Nazioni Unite.
In presenza come siamo, non di uno stratega, bensì di un avventuriero sordo ad ogni esortazione interna e internazionale, non di un giocatore di scacchi le cui regole sono precisamente fissate, bensì di un autocrate che morde le sbarre della gabbia in cui si è rinchiuso, di un apprendista stregone che ha apparentemente bruciato i ponti alle spalle, dobbiamo confidare nella profezia di Thomas Friedman sul New York International, secondo il quale “Putin ha scommesso tutti i suoi averi nel Casinò della globalizzazione, senza rendersi conto che il banco vince sempre”.
Libro aperto 11 marzo 2022
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