La perfida Albione
L’eliminazione in Europa League e la sconfitta in campionato con l’Atalanta hanno certificato il mancato salto di qualità del primo di Napoli di Ancelotti.
“Ti penso e cambia il mondo” cantava Adriano Celentano nel 2011. E com’è cambiato il mondo del Napoli in 365 giorni. Il 22 aprile del 2018 i partenopei espugnavano l’Allianz Stadium di Torino, arrivando a un passo dalla realizzazione del sogno scudetto. Un anno dopo, invece, il KO subito in rimonta dall’Atalanta ha confermato lo stato di crisi degli uomini di Carlo Ancelotti, reduci dalla freschissima bocciatura in Europa League per mano dell’Arsenal.
“Sarri uno di noi” recitava uno striscione apparso sugli spalti del semideserto San Paolo nel match di Pasquetta. Segno eloquente che i supporter azzurri non hanno gradito la piega presa dall’annata, come dimostrano i soliti cori contro De Laurentiis e i fischi ai giocatori al termine della partita.
Carlo Ancelotti era stato presentato come l’uomo in grado di far dimenticare al popolo napoletano Maurizio Sarri. Per farlo, l’allenatore emiliano, ritornato in Italia dopo nove anni di successi all’estero, aveva un’unica strada davanti a sé: vincere qualche titolo, cosa non avvenuta nel triennio dell’attuale tecnico del Chelsea.
Le premesse erano state positive, poiché, nonostante un mercato senza grandi colpi e la sconfitta nello scontro diretto contro la Juventus del 29 settembre, gli azzurri erano riusciti a rimanere in scia dei “cannibali” bianconeri, giocando, nello stesso periodo, una buona Champions League, con il tecnico di Reggiolo in grado di ruotare proficuamente quasi tutti gli elementi a sua disposizione, marcando una netta differenza con il suo predecessore.
A dicembre, però, come spesso avvenuto anche nelle stagioni precedenti, il Napoli ha mancato due appuntamenti cruciali per provare a scalare l’ultimo gradino, da sempre il più difficile e impervio. L’11, infatti, Insigne e compagni si presentano ad Anfield Road con due risultati a disposizione per passare il turno ed eliminare il Liverpool, finalista della precedente edizione. Tuttavia, il gol segnato da Salah e quello clamorosamente sbagliato da Milik a pochi istanti dal fischio finale condannano i partenopei.
“Io dico che se il Liverpool avesse avuto bisogno di due gol li avrebbe fatti. Non dobbiamo avere rimpianti, abbiamo fatto il massimo, ci è mancata un pizzico di buona sorte e questa tornerà in Europa League”. Per quanto a testa alta, come sottolineato dalle parole di Ancelotti, l’estromissione dalla prima fase della Champions, la terza nelle ultime quattro avventure nella massima competizione continentale del Napoli, lascia l’amaro in bocca, a maggior ragione se si pensa che sarebbe bastato non subire gol in casa dallo Stella Rossa per costringere i Reds a dover vincere con due gol di scarto per passare il turno. Peccato mortale, considerando che, dopo 52 minuti, gli azzurri erano in vantaggio 3-0 contro i serbi e, con ancora molto tempo da giocare, c’era tutto il margine per chiudere in goleada.
Quindici giorni dopo la bocciatura europea, nella notte di Santo Stefano, il Napoli ha l’occasione di accorciare il distacco nei confronti della Juventus, fermata sul pareggio nel pomeriggio dall’Atalanta. Ma a San Siro, in una serata balzata agli onori della cronaca per i cori razzisti nei confronti di Koulibaly, gli azzurri vengono sconfitti dall’Inter, finendo a nove punti dalla vetta e non riuscendo più, da quel momento, a ridurre il gap dai bianconeri.
Le gare di Liverpool e di Milano, inoltre, hanno messo in rilievo un altro problema della stagione partenopea: la difficoltà a trovare la via del gol. Pur avendo segnato 86 reti tra tutte le competizioni, in undici occasioni su 48 gare giocate finora (il 23% del totale) gli azzurri sono rimasti all’asciutto. Una percentuale decisamente troppo alta per una squadra alla ricerca della definitiva consacrazione.
Dati che testimoniano le difficoltà sia nella costruzione del gioco sia nei singoli elementi del reparto offensivo. Per quanto concerne questi ultimi, se Verdi non è stato minimamente in grado di giustificare né la lunga corte iniziata a gennaio 2018 né i 25 milioni investiti su di lui nella scorsa estate, ha finalmente trovato continuità dopo i due gravi infortuni degli scorsi anni Arkadiusz Milik, a segno 20 volte, ma sprovvisto di quel killer instinct che caratterizza il gotha dei migliori attaccanti del panorama europeo. In calo anche i numeri di Dries Mertens, spesso relegato in panchina e ben lontano dai 22 gol del 2017/2018 e dai 34 del 2016/2017, quando fece faville nel ruolo di falso nueve cucitogli addosso da Sarri dopo l’infortunio di Milik.
Diverso il discorso di Lorenzo Insigne, il quale, dopo uno sfavillante inizio di stagione (7 reti nelle prime 11 partite di campionato e tre gol decisivi in Europa contro Liverpool e PSG), ha improvvisamente perso la bussola, restando a lungo a secco e segnando appena tre volte da novembre in poi (l’ultima marcatura risale al 10 marzo a Reggio Emilia con il Sassuolo). Il rigore sbagliato contro la Juve nel match del San Paolo, l’intervista in cui sembra aprire a un possibile addio, la sostituzione e i fischi con l’Arsenal e l’esclusione di 90 minuti contro l’Atalanta: non si può dire che il 2019 del neo capitano azzurro stia andando nel migliore dei modi.
Il drastico calo nel numero delle realizzazioni di José María Callejόn è dovuto a cambiamenti di natura tattica. Sempre in doppia cifra nelle sue precedenti cinque annate all’ombra del Vesuvio, lo spagnolo è stato schierato in una posizione più arretrata rispetto al ruolo di ala destra da 4-3-3 che ha ben interpretato fino a un anno fa, finendo in alcune circostanze a giocare addirittura da terzino. Mentre il rendimento è sempre stato elevato, inevitabilmente la prolificità ha risentito di tali variazioni, come testimoniano i soli 4 gol stagionali.
Il più grande cambiamento apportato da Ancelotti, al di là degli schemi adottati (si è passati dal canonico 4-3-3 “sarriano” al 4-4-2, o, specialmente nelle gare europee, al 3-4-2-1), è stato nella ricerca di una maggiore verticalità rispetto alle lunghe fasi di possesso palla del predecessore. La difficoltà nel trovare un giocatore che potesse sostituire Jorginho, fortemente voluto da Sarri al Chelsea, come uomo d’ordine davanti alla difesa è stata probabilmente la più grande lacuna dell’organico napoletano. Il tentativo iniziale di provare in quella posizione Marek Hamšík è presto naufragato anche per le difficoltà atletiche dello slovacco, incapace ormai di reggere determinati ritmi. Come già avvenuto con Sarri, è stato ancora una volta rimandato Amadou Diawara, la cui crescita sembra essersi arrestata dopo le brillanti prestazioni della prima parte della stagione 2016/2017, in cui era stato capace di relegare in panchina Jorginho.
Il mercato invernale ha acuito tale vuoto, in quanto le partenze dello stesso Hamšík e di Marko Rog, insieme alla querelle Allan, a un passo dal trasferimento al Paris Saint-Germain e il cui rendimento è andato in calando, hanno ulteriormente indebolito il reparto nevralgico, portando la squadra a legare la propria pericolosità offensiva più a iniziative individuali che ad azioni corali, marchio di fabbrica del Napoli degli ultimi anni.
La conseguenza è stata affrontare molte partite con un approccio più vicino a quello del Milan allenato da Ancelotti o dell’attuale Juventus, basato principalmente sulle individualità dei singoli, senza però avere le qualità tecniche dei rossoneri dell’epoca o dei bianconeri. Non è un caso, pertanto, che i partenopei abbiano steccato la maggior parte dei big match in Italia e in Europa. Oltre alla doppia sconfitta con la “Vecchia Signora” e ai KO con il Liverpool e l’Inter, gli azzurri sono caduti anche contro il Milan nel quarto di finale di Coppa Italia giocato a San Siro, vedendo sfumare troppo presto un concreto obiettivo stagionale, teoricamente più accessibile in seguito all’eliminazione della Juve, e confermando le difficoltà nel trovare la rete alla “Scala del calcio” (0 gol segnati negli ultimi cinque precedenti tra Inter e Milan).
Un’ulteriore conferma è giunta dal doppio confronto contro l’Arsenal, da molti considerata come una finale anticipata di Europa League, ma risoltasi abbastanza nettamente a favore dell’11 allenato da Unai Emery. L’evidente mismatch dal punto di vista dell’intensità e del ritmo, che ha accompagnato tutte le formazioni italiane impegnate in Europa, diventa difficilmente spiegabile per quanto riguarda il Napoli, da tempo focalizzato unicamente sulla seconda manifestazione europea, ma incapace di dare una sterzata agli altalenanti risultati del 2019, costati prima il definitivo allontanamento dalla Juve, poi l’eliminazione in Coppa Italia e infine la delusione in Europa League, aggravata dal doppio “zero” nella casella dei gol segnati ai Gunners, molto temibili dal centrocampo in su, ma di certo non irreprensibili nella fase difensiva, come dimostrano le 62 reti subite in stagione e l’unico clean sheet esterno fatto registrare in Premier League.
Risulta comunque difficile definire fallimentare il primo anno di Ancelotti a Napoli, dal momento che c’è stata quella valorizzazione dei giovani tanto cara al presidente De Laurentiis: Alex Meret e Fabián Ruiz hanno dimostrato di poter reggere il peso della maglia azzurra, mentre Piotr Zieliński ha fatto vedere di essere molto più di un dodicesimo uomo che entra a partita in corso, come avveniva con Sarri.
Il costante miglioramento del potenziale a disposizione, la conferma della spina dorsale della squadra e un mercato finalmente all’altezza del tecnico emiliano: sono queste le basi da cui partire per fare in modo che l’avventura a Napoli di Carletto non sia semplicemente una splendida pensione dorata.
Stefano Scarinzi
28 aprile 2019
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