La Libia cerca un accordo, l’Italia ora deve scegliere
È un momento importante per il conflitto in Libia, anche se non se ne parla sulle prime pagine italiane.
In primo luogo, sono nella fase conclusiva i negoziati condotti da Bernardino León: ieri l’inviato speciale dell’Onu ha consegnato il testo “definitivo” dell’accordo alle parti, che dovranno accettarlo o rigettarlo dopo l’attuale settimana festiva dell’Eid al-Adha. L’intesa stabilirà le regole del gioco per il prossimo anno e dovrebbe mettere in moto il meccanismo per un cessate il fuoco. Nelle prossime settimane, le varie fazioni dovranno concordare anche i nomi del nuovo governo di unità nazionale. Termine ultimo è diventato il 20 ottobre, data in cui scadrebbe la legislatura libica, che andrà quindi rinnovata con l’accordo per non creare un vuoto di potere.
In secondo luogo, l’assemblea generale dell’Onu entrerà nel vivo lunedì 28 settembre. È sempre un’occasione per grandi dibattiti e talvolta anche per grandi frittate. Si veda quella dell’anno scorso, quando un gruppo ad hoc sulla Libia finì, con il consenso italiano, per approvare la linea egiziana e degli Emirati Arabi Uniti che sosteneva il governo di Tobruk (una delle due parti in lotta) in nome della guerra al terrorismo. Da allora, il terrorismo in Libia, soprattutto quello dello Stato islamico, ha fatto passi da gigante.
Che León riesca o meno a finalizzare un accordo tra le fazioni libiche, questo avrà un impatto su due dei dossier più scottanti per la politica estera italiana. Sia il fenomeno migratorio che la lotta contro l’espansione dello Stato islamico passano per la Libia, almeno per quanto concerne l’Italia. È bene quindi capire non solo a che punto siamo e dove potremmo finire ma anche chi e cosa sono gli elementi da tenere sott’occhio.
Il conflitto viene solitamente descritto come una lotta tra gli islamisti di Alba libica a Tripoli e il governo legittimo di Tobruk, ognuno con il suo governo e il suo parlamento. A est, tra Tobruk e Beida, siedono il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e guidato da Abdullah al-Thinni nonché la Camera dei Rappresentanti eletta il 25 giugno 2014. A Tripoli invece ci sono il “governo di salvezza nazionale” e il Congresso Generale Nazionale, il parlamento eletto nel 2012 e riesumato un anno fa. Alba libica come soggetto unitario non esiste più.
In realtà il puzzle è molto più complicato e nessuno dei due governi governa veramente. Se si guarda ai negoziati, la città di Misurata è da tempo un terzo soggetto autonomo che addirittura manda delegazioni a trattare ad Abu Dhabi. Misurata combatte Tobruk in quanto reincarnazione del vecchio regime gheddafiano, ma allo stesso tempo si distingue dall’intransigenza di Tripoli e preme per un accordo di unità nazionale.
All’estremo opposto, in quella che una volta era Alba libica, c’è il Fronte della fermezza, l’alleanza tra i duri di Tripoli (molti) e di Misurata (pochi ma significativi). Questi hanno, per usare un eufemismo, una certa ascendenza sul “parlamento” di Tripoli, spesso esercitata tramite pressioni militari come durante l’assalto al Congresso Generale Nazionale di venerdì 18 settembre. Guarda caso durante il dibattito sui negoziati Onu. Dallo scontro tra duri e Misurata si capirà se Tripoli farà o no parte dell’accordo e quindi se il governo che uscirà dalle trattative governerà effettivamente sui ministeri, sulla Banca centrale e sulla società del petrolio.
A proposito di pressioni militari: anche il versante Tobruk/Beida non ne é immune, anzi. Il generale Khalifa Heftar non ha mancato occasione per mostrare di esercitare una certa influenza sugli organi decisionali libici. Da lui passano i rapporti (e le armi) tra Tobruk, il Cairo e Abu Dhabi. Heftar si è fatto nominare capo delle Forze armate e di tanto in tanto manda qualche segnale al primo ministro al-Thinni, il quale nelle ultime due settimane praticamente non è riuscito a prendere un aereo per uscire dal paese. Sempre cortesemente trattenuto a terra dalle forze al comando di Heftar, che hanno opportunamente lanciato un’offensiva militare (Operation Doom, “Operazione sventura”) per ricatturare Bengasi alla vigilia della scadenza del 20 settembre.
L’obiettivo neanche troppo nascosto di Heftar è far scadere la Camera dei Rappresentanti senza accordo e diventare il capo di un Consiglio supremo delle Forze armate libiche. Ricorda, chissà perché, l’Egitto.
Lo Stato islamico. In misura crescente dallo scorso inverno, sono attivi gli affiliati alla banda di al-Baghdadi, che i libici chiamano “l’organizzazione dello Stato”. Ovviamente ostile sia alle trattative che ai due “governi” di Tobruk e Tripoli, è stato sostanzialmente cacciato dalla sua testa di ponte iniziale a Derna, ma ora controlla una vasta area al centro del paese, intorno e dentro la città di Sirte. Da lí puó spezzare in due la Libia, controllando sia la strada costiera che la direttrice nord-sud, con tutti i traffici più o meno illegali che questo comporta.
Oltre a minacciare i libici e l’Europa, la semplice esistenza dello Stato islamico consente ai vari attori descritti sopra (e ai loro patron regionali) di avere sempre una scusa per combattere e farsi vendere armi.
Le varie parti combattono da sempre non solo per il controllo del territorio, ma anche per le istituzioni e i luoghi della produzione di gas e petrolio. Soprattutto nel sud e al confine con la Tunisia, le battaglie coinvolgono le grandi rotte e gli hub dei traffici illeciti. Tanto più l’Occidente e i moderati libici sapranno garantire il flusso di petrolio e l’uso dei proventi per scopi pacifici, tanto più stabilizzeranno un paese dove l’85% della forza lavoro ha uno stipendio pubblico e il 95% delle entrate statali proviene dall’energia. Parallelamente, europei e statunitensi stanno combattendo contro la creazione di una società petrolifera nell’est della Libia, che servirebbe a finanziare Tobruk e sarebbe la pietra tombale su ogni necessità di un accordo di unità nazionale.
Secondo fonti confidenziali e non, in caso di accordo l’Italia avrà la guida di una missione internazionale per proteggere gli edifici più importanti della capitale, sempre oggetto delle affezionate attenzioni delle milizie negli anni passati. I partner occidentali però aspettano che Renzi decida alcune questioni chiave: dispiegheremo il nostro contingente anche in caso di ambiente parzialmente ostile? In che rapporto saremo con le forze libiche esistenti? Quale sará esattamente il ruolo della missione? Le domande verranno fatte con piú insistenza durante l’Assemblea Generale dell’Onu.
A seconda delle diverse combinazioni di questi fattori ci sono tre risultati possibili.
Il primo e più auspicabile è che ci sia un accordo di unità nazionale sottoscritto anche dalla maggioranza di quelli che controllano Tripoli. A quel punto è possibile che il nuovo governo libico richieda una forza internazionale di protezione e l’Italia non potrà più rimandare le scelte di cui sopra.
Il secondo è che l’accordo si faccia senza Tripoli. A quel punto o le milizie che controllano la città si ritireranno in posti sicuri per non perdere le armi o si assisterà a un escalation in cui le forze firmatarie di un accordo lanceranno una o più offensive per conquistare la capitale.
Il terzo scenario è che prevalga lo status quo o un suo adattamento. Nessun accordo, prosecuzione del conflitto più o meno a bassa intensità e graduale ascesa dei duri all’interno dei due campi. La situazione perfetta per lo Stato islamico e non solo.
Fonte: Limes
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