Italia pre-unitaria: divario Nord-Sud non significativo
Il Direttore di Storia Economica Luigi De Matteo confuta le tesi del libro “Perché il Sud è rimasto indietro” di Emanuele Felice
(Lettera Napoletana) – Un articolo del prof. Luigi De Matteo, docente di Storia Economica all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale e direttore della rivista “Storia Economica”, offre interessanti elementi di valutazione sull’economia del Regno delle Due Sicilie e confuta sulla base di documenti diverse delle tesi anti-borboniche contenute nel recente libro di Emanuele Felice “Perché il Sud è rimasto indietro” (Il Mulino, 2014). L’articolo (“Il ‘ritardo’ del Mezzogiorno dai Borbone a oggi. Un recente volume, i rituali politico-cultural-mediatici del nostro tempo, la storiografia economica”), uscirà sul prossimo numero di “Storia Economica” (2/2013) ed è stato anticipato dalla rivista.
Il prof. De Matteo è decisamente lontano dalle posizioni degli studiosi, quasi tutti di provenienza non accademica, che da anni hanno avviato una revisione dei luoghi comuni della storiografia risorgimentale, ed ancora di più da quella che definisce “la pubblicistica dei primati”, vera ossessione degli storici del “rito antico ed accettato” risorgimentale alla Renata De Lorenzo (cfr. Due Sicilie: ‘Borbonia Felix, la storiografia autoreferenziale’, LN 66/2013). Il prof. De Matteo qualifica come “martiri” i giacobini della “Repubblica partenopea” – secondo una definizione dell’avvocato amministrativista Gerardo Marotta rilanciata negli anni scorsi da giornalisti come Antonio Ghirelli e dallo scrittore Raffaele La Capria – che in qualunque Paese d’Europa, a partire dalla Francia rivoluzionaria, e non solo nella Napoli borbonica che si limitò a giustiziarne 122, sarebbero stati passati per le armi per alto tradimento ed intesa con il nemico. In ogni caso “martyrem non facit poena, sed causa”, ed i giacobini di Napoli erano una piccola avanguardia “illuminata”, autodesignatisi a guidare il popolo verso il bene che quest’ultimo non è in grado di vedere, secondo uno schema fatto proprio poi da Lenin. E per dirigere il popolo napoletano verso il bene non esitarono a massacrarlo, con l’aiuto decisivo delle baionette francesi.
Il direttore di “Storia Economica” assume poi, come molti altri suoi colleghi accademici, quale parametro di valutazione l’accettazione della categoria della modernità, che i Borbone Due Sicilie vagliavano criticamente ed alla quale complessivamente resistevano, e designa come “brigantaggio” la guerra nazionale e religiosa scoppiata nel Sud dopo l’invasione piemontese (cfr. Antonella Grippo, “Uno Dio e Uno Re”, Editoriale Il Giglio, 2008).
Proprio tenendo conto delle sue posizioni, dunque, gli argomenti dello studioso risultano più interessanti e stimolanti.
A proposito del divario economico tra Nord e Sud al momento dell’unificazione, che è diventato argomento di accesa discussione anche tra gli storici accademici, il prof. De Matteo definisce “fuorviante” la riduzione della storia economica del Sud “ingabbiata nella storia dell’origine e della cause del dualismo nell’economia italiana” ed osserva che questo tipo di comparazione “porta a confrontare economie profondamente diverse (per esempio nella differente vocazione mediterranea) con differenze notevoli, come nel caso del Mezzogiorno, anche al loro interno, e che avevano avuto scarsissime relazioni economiche e commerciali prima dell’Unità”. Si può concordare sulla sua valutazione, ma il presunto divario tra “l’arretrato Regno dei Borbone ed il Piemonte evoluto” è ancora parte integrante dell’insegnamento scolastico che i libri di storia propinano ai ragazzi del Sud. Certo, la vulgata risorgimentale è messa in discussione, come ha documentato il pamphlet di Gennaro De Crescenzo scritto per le celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione (“I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud”, Editoriale Il Giglio, 2012), e qualche studioso straniero senza condizionamenti ideologici aggiunge contributi importanti (cfr. la ricerca di Stéphanie Collet, dell’Université Libre di Bruxelles, sul valore dei titoli finanziari del Regno delle Due Sicilie) ma molto resta da pubblicare.
In ogni caso – per il direttore di “Storia Economica” – si può convenire sul fatto che “l’ampiezza del divario tra il Nord ed il Sud al momento dell’Unità in termini di Pil e di indicatori sociali e di fattori favorevoli allo sviluppo sia molto meno significativa di quella che separava allora l’Italia nel suo insieme, e lo stesso Centro-Nord, dai Paesi più avanzati dell’epoca”.
A Felice, il prof. De Matteo contesta anche il “luogo comune” e la “storiella” della costruzione della ferrovia Napoli-Portici allo scopo di consentire alla famiglia reale di raggiungere la residenza di Portici, e ricorda tra l’altro che alla costruzione della Napoli-Nocera-Castellammare, poi prolungata fino a Vietri, “la società Bayard (…) provvide senza alcuna agevolazione dello Stato, unico esempio in Europa, almeno a partire dalla crisi del 1836-39”.
Si tratta di un altro dei primati borbonici sui quali lo studioso ed esperto di sistemi ferroviari Lucio Militano (“Le ferrovie delle Due Sicilie”, Editoriale Il Giglio, Napoli 2013) ha offerto un significativo contributo, dimostrando che l’annessione piemontese provocò un brusco stop ai progetti di espansione ferroviaria dei Borbone, mentre il Piemonte si impadronì del superiore know-how tecnico del Regno delle Due Sicilie ed inaugurò in nome dell’ “Italia unita” linee già quasi ultimate dai Borbone.
E il direttore di “Storia Economica” ricorda che nel 1856 il Crédit Mobilier di Parigi, un importante Istituto di credito specializzato nei finanziamenti alle opere pubbliche, aveva deciso di acquistare “l’intero pacchetto azionario di una società per azioni napoletana, per stabilire a Napoli la sua sede operativa per l’Italia e promuovere nelle Due Sicilie iniziative in tutti i settori, ivi incluso quello ferroviario”. L’Istituto di credito francese rinunciò l’anno dopo “per ragioni – scrive De Matteo – verosimilmente anche legate alle vicende che avrebbero portato all’unità politica della penisola”. Cioè quando fu chiara la scelta filo-piemontese della Francia di Napoleone III.
Il prof. De Matteo rileva una serie di errori metodologi e di statistiche palesemente inverosimili utilizzate da Felice per la dimostrazione della sua tesi: l’arretratezza dell’attuale Sud sarebbe stata causata dai Borbone. Il resto (dopo l’unificazione) lo avrebbero fatto istituzioni e classi dirigenti sempre create, o almeno tollerate dai Borbone). A questo proposito va osservato che Felice, che insegna Storia economica all’Universitat Autònoma di Barcellona, per documentare il ruolo che avrebbe svolto la camorra in età borbonica cita Alexandre Dumas, cioè un romanziere pagato per raccontare le “imprese” di Garibaldi in Italia e da lui gratificato con denaro e privilegi, la cui autorevolezza scientifica è pari, se non inferiore, a quella di un cantante neomelodico.
L’autore dell’articolo contesta in sostanza la tesi centrale di Felice, sulla “origine borbonica dei mali del Sud”. Per De Matteo, sulla scorta della storiografia economica più attendibile, quella del Regno delle Due Sicilie era “un’economia agricolo-commerciale con almeno fino all’unificazione, un nucleo di industrie rivolte all’import substitution (politica economica che punta a sostituire i beni che si debbono importare con quelli prodotti dal mercato interno, in linea con l’orgogliosa indipendenza anche economica del Regno che i Borbone difendevano, n.d.r.) e una diffusa attività manifatturiera di tipo domestico e rurale. Una economia – prosegue De Matteo – evidentemente in ritardo rispetto ai Paesi più avanzati dell’epoca, e tuttavia non statica e immobile, ma con evidenti segni di rinnovamento a Napoli, in alcune province, e nelle aree collegate al commercio internazionale e con la capitale, così come in settori nuovi o di antica tradizione”.
Certo, riconosce il direttore di “Storia Economica”, quella delle Due Sicilie era una “dura competizione, in un contesto internazionale nel quale le grandi potenze industriali e commerciali controllavano gli scambi a tutte le latitudini e inondavano con i loro manufatti le economie agricolo-commerciali dell’Europa… (…) un clima che un contemporaneo negli anni ‘40 non esitò a definire di guerra commerciale”.
Parte dell’articolo del prof. De Matteo è dedicata a considerazioni sulla ricerca del consenso mediatico, sempre più diffusa tra gli studiosi. Alcuni di essi – e Felice è tra loro – appaiono condizionati proprio da questa ricerca anche nelle loro pubblicazioni. Condividiamo la critica del direttore di “Storia Economica”. Gli studiosi sono una cosa, i giornalisti ed i divulgatori un’altra. Ma questo vale anche per gli interlocutori di parte borbonica e neo-borbonica designati spesso dai mass-media, secondo criteri propri. Piuttosto che i “meridionalisti” improvvisati, che spesso ripropongono vecchi schemi ideologici, meglio la “pubblicistica dei primati”, nell’ambito della quale c’è forse qualche semplificazione e qualche ingenuità, ma vi sono anche studiosi abituati a frequentare gli archivi ed a studiare la storia non con l’applicazione di discutibili modelli matematici, ma sui documenti. E se restano fuori dalle Università è solo perché queste ultime in Italia restano saldamente presidiate dai custodi dell’ortodossia risorgimentale crociani e marxisti. (LN79/14).
Fonte: Lettera napoletana – Editoriale Il Giglio
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