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Il sistema periodico – “Autobiografia chimica” di Primo Levi

sistema-periodicoA cura di Chiara VillaniLaboratorio Letteratura e Innovazione.

«Oggi so che è un’impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta» .
Nel periodo storico del ‘900 nasce un sentimento di sfida da parte della letteratura verso la centralità sempre più netta dello sviluppo che introduce una dimensione effimera, dai ritmi celeri e dalla rilevanza dell’universo scientifico.
La “autobiografia chimica” che scrisse Primo Levi nel 1975 manifesta l’esigenza di chiarezza e di razionalità che l’autore aveva nel raccontare le proprie esperienze di vita. Ventuno elementi periodici selezionati dallo scrittore, sui centododici possibili fino al 2010 , insieme hanno generato un capolavoro per i contemporanei e non. Un romanzo che, apparentemente, è slegato dalla coscienza collettiva, ma che in realtà si congiunge ad essa perfettamente.

Primo Levi conduce il fruitore attraverso la propria formazione «maturata negli anni del fascismo, delle leggi razziali, della guerra, della prigionia nel lager nazista e del successivo reinserimento nella vita normale e nella dimensione del lavoro. In quel periodo la chimica, il suo lessico, il suo sistema di segni e di simboli si offrono come possibilità di chiarezza e di razionalità contro il caos e l’oscuro disordine del mondo, come referente intellettuale ed etico. I nomi stessi degli elementi chimici sono prospettati come metafore di comportamenti e caratteri umani»; un esempio è il primo elemento che prende in considerazione l’autore, l’argon, nel quale traccia una reminiscenza della propria famiglia: «Il poco che so dei miei antenati li avvicina a questi gas. Non tutti erano materialmente inerti, perché ciò non era loro concesso: erano anzi, o dovevano essere, abbastanza attivi, per guadagnarsi da vivere e per una certa moralità dominante per cui ‘chi non lavora non mangia’, ma incerti erano senza dubbio nel loro intimo».

Nell’opera l’autore pone l’attenzione sul tema del lavoro, subìto nei campi di concentramento e voluto da chimico: «Non mi interessava diventare ricco: mi importava vivere libero, non avere un collare come i cani, lavorare così, quando voglio, senza nessuno che mi venga a dire ‘su, avanti’. Per questo soffro a stare qui dentro; e poi, oltre a tutto, si perde giornata» . L’esperienza vissuta ad Auschwitz ha segnato Primo Levi, che sottolinea l’importanza della libertà anche nella sfera lavorativa, per lui di primaria importanza. Philip Roth in un’intervista su «La Stampa» pose l’attenzione sull’argomento: considerò il lavoro un’ossessione per lo scrittore che aveva l’obiettivo di scindere la fatica fine a se stessa da quella voluta espressamente, la prima resa obbligatoria dalle circostanze e da un movimento circolare che non proponeva uno scopo ma anzi puntava a logorare mentalmente e fisicamente la persona in questione – una vera e propria tortura mentale; la seconda, scelta e desiderata: «La tua effettiva mani di lavorare ha un’origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz. Arbeit Macht Frei, il lavoro rende liberi: sono le parole incise dai nazisti all’ingresso di Auschwitz. Ma il lavoro ad Auschwitz è un’orrenda parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; è fatica come punizione, che porta a una morte tormentosa. Si può considerare la tua intera fatica letteraria come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redimendo la parola Arbeit dall’irridente cinismo con il quale i tuoi datori di lavoro di Auschwitz l’avevano sfregiata» .

L’ultimo capitolo, intitolato “Carbonio” è una sintesi armoniosa dell’intera opera, tra il lavoro dello scrittore e del chimico, che mette in ordine il reale attraverso mezzi diversi, «un’implicita dichiarazione poetica» ; il capitolo tratta di un atomo di carbonio che nell’immaginario dell’autore viaggia dal 1848 e che dimostra l’esiguità dell’essere umano al cospetto dell’immensità della natura; Levi compie una riflessione sull’atteggiamento umano considerato frenetico e insoddisfatto, una nevrosi specchio di una società sempre più veloce e insaziabile: «Tanto esso è diverso dalla chimica ‘organica’ che è opera ingombrante, lenta e ponderosa dell’uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata ‘inventata’ due o tre miliardi d’anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono, e la cui temperatura è identica a quella dell’ambiente in cui vivono» . Durante il racconto l’autore ragiona sulla vita, paragonandola all’atomo di carbonio: «‘Così è la vita’, benché raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell’energia, dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all’ingiù, che conduce all’equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un’ansa e ci si annida». Levi nell’ultimo capitolo medita sul genere dell’opera e ammette che non si può parlare di un trattato chimico né di un’esemplare autobiografia; la definisce una microstoria nella quale ci sono personali spunti di vita che ha voluto condividere: «Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica: la mia presunzione non giunge a tanto, ‘ma voix est foible, et même un peu profane’. Non è neppure un’autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. È, o avrebbe dovuto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga. Giunto a questo punto della vita, quale chimico, davanti alla tabella del Sistema Periodico» .

La “microstoria” giunge al termine con un epilogo insolito e inedito, nel quale la particella di atomo di carbonio da un bicchiere di latte arriva fino alla mano dello scrittore stesso: «È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù. fra due livelli d’energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo».

Chiara Villani

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