Il crowd work: questo sconosciuto?
La riflessione di Ciro Cafiero sulle nuove dinamiche evolutive del mercato del lavoro e sulle competenze richieste ai lavoratori del nuovo millennio. Pubblicato sull’Huffington Post il 14/12/2016.
I millennials italiani sono attrezzati per i miracoli. Come insegnano il caso Foodora, e quelli di UberEats, Deliveroo e TakeEatEasy, le uniche cose di cui hanno bisogno per lavorare sono uno smarthphone connesso alla rete, per aggiudicarsi la commessa su una piattaforma on-line, e una bicicletta, per eseguire per esempio il trasporto di generi alimentari che su questa piattaforma si sono aggiudicati.
Si tratta dei millennials in crowd work, una forma di lavoro che ha fatto capolino nel rapporto Eurofound 2015 intitolato “New forms of employments”. La traduzione più conosciuta è “lavoro nella folla”. Secondo alcune stime (Huws 2016), nel 2020, in America almeno l’11 % dei lavoratori lo sperimenterà mentre, nel 2015, in Europa i guadagni ottenuti grazie ad esso, secondo il documento della Commissione, sono stati pari a circa 28 miliardi di euro.
Questa novità impone subito due domande. La prima è quali i benefici? La seconda, di riflesso, quali i rischi?
Andando con ordine, il crowd work, come ogni altra forma di lavoro che prenderà vita in futuro, ha un potere senza eguali. Quello di “disintermediare” i rapporti, lo spazio e i tempi di lavoro dell’attuale organizzazione dell’impresa, di superare quindi questa organizzazione stessa e il dualismo tra lavoro stabile e precario che di essa è figlio.
Perchè il lavoratore in crowd work non ha rapporti verticali o orizzontali in azienda, ma semplicemente “rapporti” con la piattaforma on-line e quindi, per forza di cose, non indossa né la camicia dell’occupato stabile né quella del precario. Non ha spazi di lavoro, e quindi non resta sempre in uno stesso spazio come il primo o vi entra ed esce come il secondo, ma li decide in autonomia tra quelli molteplici a sua disposizione nell’ottica di evadere la commessa aggiudicatasi.
Con le stesse modalità e in questa stessa ottica, decide i suoi tempi di lavoro e quindi non soggiace a quelli decisi dall’azienda, abbia egli indossato l’una o l’altra camicia. I rischi per il “crowd worker” sono diversi. Per esempio, quello di ricevere un compenso irrisorio, di restare privo delle basilari tutele sulla sicurezza o di una valutazione congrua del proprio lavoro visto che, sulla piattaforma on-line, il migliore è chi evade per primo e in maniera più economia la commessa.
Se cosi stanno le cose, a questi interrogativi se ne aggiunge uno più importante. Quale la soluzione? Una potrebbe essere quella di creare un nucleo stabile di diritti in favore del lavoratore in quanto tale, sia egli stabile, precario, o appunto “crowd worker”, e superare il dogma del nostro diritto del lavoro che, invece, lega i diritti a quella famosa camicia che il lavoratore indossa.
Come ha intuito di recente il giudice del lavoro inglese dinanzi al caso dei lavoratori di Uber (case n. 2202551/2015 Aslam/Farrar), ai lavoratori del domani bisogna guardare semplicemente come workers e non più per esempio come employees, lavoratori dipendenti.
Si tratta, in fondo, soltanto di prendere atto che “la realtà è più importante dell’idea”. Altrimenti, un’Italia continuerà a impantanarsi nelle paludi ideologiche e l’altra a correre alla velocità di una bicicletta!
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