I fratelli D’Innocenzo hanno scoperto l’America (latina)
La recensione del film “America latina” a cura di Chiara Villani.
Nessun Cristoforo Colombo o Amerigo Vespucci, questa volta a scoprire l’America (latina) sono i fratelli D’Innocenzo, Damiano e Fabio.
Con il terzo film – dopo La terra dell’abbastanza e Favolacce – i due registi si sono confermati abili tessitori di una personalità complessa e disagiata; sì, perché il personaggio principale, Massimo Sisti, è un uomo che, almeno apparentemente, sembra essere normale, oseremmo dire perfetto. Ed è proprio “Perfetto” la prima parola pronunciata nel film, non una coincidenza, non per due come i D’Innocenzo. Man mano che le dinamiche si creano e i personaggi si delineano è evidente come di perfetto non ci sia nulla, se non l’idea, l’apparenza.
Memorie dal sottosuolo
E dall’apparenza, nella superficie, bisogna scavare e scoprire cosa c’è nei pensieri del protagonista, cosa lo muove a fare ciò che fa. Nella prima parte della pellicola Fabio e Damiano ci fanno conoscere un personaggio che conduce una vita lineare e agiata: Massimo è un odontoiatra, proprietario dello studio nel quale lavora e nel quale lavorano altri colleghi, un grande successo personale e lavorativo che fa emergere una personalità di carattere e di competenza. Nella vita privata il protagonista si lascia crogiolare da un’esistenza serena e pacifica, la villa in cui abita è avvolta da un locus amoenus: natura, pace e bellezza sono i veli che si posano sulla casa; la fortuna più grande di Massimo? La famiglia: sua moglie – Alessandra – e le sue due figlie – Laura e Ilenia, tre angeli che sembrano caduti dal cielo, fatti su misura per lui.
Massimo, nel suo meandro più oscuro, nasconde una parte di sé che è restio a mostrare e accettare, ne consegue una distorsione dell’apparenza che mostra con i paraocchi un uomo capace di avere successo nel lavoro, in amore e nel sociale: capo, marito, padre e amico; tutti ruoli costruiti ad hoc per delineare una vita che, altrimenti, risulterebbe povera ai più. La verità è molto lontana dalla parvenza: Massimo è un narcisista patologico che manipola sé, gli altri e persino lo spettatore.
Figlio, a sua volta di un altro narcisista patologico, è un uomo che si rifugia nella solitudine, rimugina pedissequamente ed è incapace di costruire rapporti interpersonali sani. Il narcisista, come nel romanzo di Dostoevskij “Memorie dal sottosuolo”, è un outsider che non si amalgama alla società e che la contesta senza riuscire a trovare alcuna soluzione alla propria natura, ai propri problemi e alle proprie vicende; tutt’altro, l’uomo, asseconda i propri istinti primordiali e le proprie necessità senza alcuno scrupolo nei confronti del prossimo.
I traumi vissuti lo portano a rapire una bambina e nasconderla nella sua cantina; legata e imbavagliata, viene costretta a nutrirsi con cibo confezionato e bevande di ogni sorta in condizioni umane indicibili. Le scene che intercorrono tra un momento di via familiare e uno di lavoro, descrivono le memorie di un sottosuolo che diventano sempre più rumorose e persistenti, fino a quando Massimo rompe un tubo della cantina e l’acqua comincia a inondare l’ambiente; la bimba rimane immobile e assiste all’allagamento del vano fino a rischiare la morte per annegamento.
L’acqua è un elemento che in queste memorie di Massimo rispecchia i suoi pensieri che colmano la stanza sempre di più, fino ad uccidere, quasi, la bambina.
L’importanza dell’armocromia
Nella pellicola dei fratelli D’Innocenzo l’elemento dell’armocromia è fondamentale; l’approccio a diverse scene passa attraverso le sensazioni che suscita questa: rosso, verde, blu e giallo, i colori principalmente utilizzati.
Il rosso, il simbolo dell’energia vitale, della forza e del sangue, come anche quello del desiderio e della passione sotto ogni tipo di forma, è una colorazione che suscita attenzione e un senso di pericolo o di urgenza: i due fratelli ne fanno uso specialmente nelle scene in cui Massimo sembra perdere il controllo e sembra ritrarsi in sé, lasciando ai fruitori l’idea che stia per accadere qualcosa – che sia nella sua testa o che sia al di fuori di essa; un esempio è la rivelazione che subisce il protagonista dopo essersi imbattuto nella bambina al piano di sotto, Massimo sembra fuori di sé e perde il contatto col mondo, lo shock è forte e il pericolo è concreto.
Il verde simboleggia la conoscenza e la perseveranza intesa come resistenza al cambiamento, un faro di speranza che avvolge la bimba rapita e nascosta nello scantinato; questo pigmento è liso nelle riprese in cui Massimo scende per constatare la sua salute e tenta in ogni modo di sopperire ai bisogni fisiologici della creatura indifesa.
Il blu che simboleggia armonia, tranquillità, equilibrio; un colore sfruttato dai due fratelli in piccoli frangenti nei quali il protagonista sembra riflettere o rimuginare su ciò che sta accadendo, momenti di passaggio ma allo stesso tempo essenziali ai fini dell’iter che deve affrontare il personaggio principale; ne è un esempio la sua visita al bar di fiducia in cui è solito ritrovarsi con l’amico per bere e per rilassarsi.
Infine, il giallo come unione tra il rosso e il verde, in quanto simbolo di energia e conoscenza, ma anche del cambiamento; la scena che ispira i fratelli D’Innocenzo e li spinge a usufruire di questo colore è quella dell’incontro tra Massimo e il padre: il momento in cui emergono i fantasmi del protagonista, visto per la prima volta vittima e non carnefice, fragile e insicuro. L’energia è indubbiamente intensa, la conoscenza che il padre ha del figlio e, rispettivamente il figlio che
scopre avere di sé, creano, di conseguenza, un’epifania nello spettatore e lo portano a ricollegare i tasselli che i registi sono stati bravi a disperdere.
La femmina, un ruolo sacro e profano
Alessandra, Laura e Ilenia: tre donne che indossano le vesti di tre custodi. Sacre e profane allo stesso tempo, hanno l’incarico di contenere la personalità complessa e recisa di Massimo.
Tre nomi significativi; non è un caso che i D’Innocenzo abbiano scelto questi nomi per le figure femminili che hanno accompagnato il protagonista lungo il viaggio che compie.
Nella pellicola le figlie ricoprono un ruolo fondamentale seppur marginale. Laura, la figlia maggiore, è alle prime esperienze amorose; una donna-angelo di nome e di fatto: il nome riporta alla letteratura italiana, più precisamente a Francesco Petrarca e alla sua musa Laura, un termine che conduce a svariati senhal: l’aura, l’aureola e l’alloro – per paronomasia; l’alloro come l’aureola richiamano l’incoronazione poetica e sanciscono un legame forte con la poesia, l’aura come gioco omofono che pervade il Canzoniere.
Ilenia, la figlia minore, è ancora piccola, ancora pura e innocente – come la bambina che si trova in cantina. Il nome, di origine ebraica, va ricondotto al sostantivo della pianta; quest’ultima assume un ruolo essenziale: personifica il germogliare della vita e della purezza, come anche il germogliare del malessere che ha il protagonista.
Il significato del nome Alessandra, la moglie di Massimo, è da attribuire all’origine greca di Alèxandros, nome che ha visto fondersi due parole greche alexein – proteggere respingendo – e andros – uomo, guerriero – da ciò: protettore di uomini; Alessandra è la fautrice del destino di Massimo, è il deus ex machina, è la chiave di volta, colei che esorta il protagonista a fare ciò che deve, ciò che è necessario e ciò che è più giusto.
Sacre, gentili e angeliche trainano il protagonista e lo portano all’ascesa: Alessandra è capace di riportare alla realtà Massimo e di farsi promotrice della sua ammissione di colpa, complici implicite le figlie con la loro presenza costante e necessaria seppur – come detto – contenuta.
Termine ultimo è l’estasi del protagonista che si eleva nello spirito quando comunica senza più veli con la moglie, mostra la sua parte più oscura alla famiglia e concede, finalmente, la realtà allo spettatore.
Il ruolo di tutte e tre le donne risulta compresso e intagliato appositamente per calzare in modo impeccabile al protagonista. Tanto da non essere reali: la funzione delle tre risulta la salvezza ma allo stesso tempo la condanna per Massimo; figure profane inventate dalla mente malata e pervasa di pensieri di un uomo rimuginatore e narcisistico, incapace di amare realmente e di rapportarsi al prossimo.
La realtà è ben diversa dalla sua fantasia e fa emergere un paesaggio tutt’altro che brulicante e ameno: il quadro è arido e sterile, privo di ogni forma di vita, apatico. Massimo è solo quando rapisce la bambina, Massimo è solo quando tortura e trattiene controvoglia la bambina, Massimo è solo quando la libera. Un uomo abbandonato a se stesso che ha preferito costruire nella sua mente una realtà colorata e felice in cui potersi rifugiare.
Alessandra, Laura e Ilenia perdonano Massimo – come padre e come marito – seguendolo fino in carcere; la mente malata del protagonista immagina di non rimanere solo e di ricevere il perdono dalle persone per lui più importanti.
Scoperte le carte, anche il pubblico sarà capace di perdonarlo?
Chiara Villani
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