Fondi europei, croce o delizia?
Relazione di Paolo Carotenuto alla presentazione del percorso di europrogettazione “Europa 2020: istruzioni per l’uso”, in occasione del terzo seminario del II Ciclo Verso Europa 2020. Napoli, Circolo della Marina, 27/02/2013.
Introduzione
L’obiettivo perseguito con i fondi del bilancio europeo è il miglioramento della vita quotidiana delle persone, attraverso una serie di interventi tesi ad offrire maggiori opportunità di studio all’estero agli studenti, facilità di accesso a mercati più grandi ed eque condizioni operative alle piccole imprese, più possibilità di sviluppare le proprie idee ai ricercatori e nuove opportunità di formazione a chi cerca lavoro.
Direttamente o indirettamente, tutti noi beneficiamo di attività finanziate dal bilancio UE, che si tratti di spiagge più pulite, di una maggiore sicurezza alimentare, di strade in migliori condizioni o dei nostri diritti fondamentali. Non tutti, però, colgono la reale dimensione dei fondi europei e la loro provenienza. A tal proposito è bene sfatare alcuni miti.
È bene ricordare che la realizzazione di progetti e opere attraverso l’utilizzo di fondi comunitari non costituisce un regalo che l’Unione Europea fa agli stati membri. I fondi sono finanziati dagli stessi Stati membri e quindi da tutti i cittadini attraverso il pagamento delle tasse. Il mancato utilizzo di fondi messi a disposizione e non sfruttati, costituisce un doppio danno per la comunità; come, del resto, l’utilizzo destinato alla realizzazione di opere inutili o incapaci di favorire un reale sviluppo del territorio, anche alla luce delle quote di co-finanziamento pendenti in capo alle amministrazioni locali e nazionali.
L’Italia, nel periodo compreso tra il 2007 e il 2011, presenta un saldo negativo di 22 miliardi di euro tra contributi destinati al bilancio europeo e fondi usati. Una cifra già di per sé impressionante, equivalente più o meno al gettito atteso dall’Imu, aggravata dalla perdurante crisi economica in cui versa il Paese. Si tratta di una cifra inferiore al saldo della Francia – forte di un reddito nazionale superiore al nostro di un quarto – di appena due miliardi di euro, e di cinque miliardi in meno rispetto al Regno Unito, che ha un Pil maggiore del 10%. In valori assoluti i versamenti sono passati dai 14,02 miliardi del 2007 ai 15,1 miliardi del 2008 (comprensivi della voce legata all’amministrazione). E dal 2008 al 2011 i contributi sono aumentati di altri 900 milioni, toccando quota 16 miliardi nel 2011. Gli incassi europei hanno viaggiato sulla corsia di marcia opposta, scendendo dagli 11,3 miliardi del 2007 ai 9,5 miliardi del 2011. Dati che ci dicono come tutto ciò che spendiamo ricorrendo ai finanziamenti europei, in realtà proviene direttamente dal nostro Paese.
Fondi europei, cosa finanziano
Gli interventi e i progetti finanziati dal bilancio UE rispecchiano le priorità stabilite dall’Unione in un determinato momento. Essi sono raggruppati in grandi categorie di spesa (i cosiddetti «capitoli») e in base a 31 diverse aree d’intervento.
Il bilancio UE finanzia interventi e progetti in settori nei quali tutti gli Stati membri hanno deciso di agire nell’ambito dell’Unione, e questo perché, in determinati campi, è possibile massimizzare i risultati e ridurre le spese unendo le forze.
Esistono tuttavia aree d’intervento in cui gli Stati membri hanno preferito non intervenire a livello dell’UE; ad esempio, la previdenza sociale, le pensioni, la sanità o l’istruzione sono tutti settori finanziati dai bilanci nazionali, regionali o locali. Grazie al «principio di sussidiarietà» l’Unione interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione.
Crescita e occupazione
Per il periodo 2007-2013 gli Stati membri dell’Unione hanno deciso di destinare una parte considerevole degli sforzi congiunti e del bilancio UE allo stimolo della crescita economica e occupazionale. La crescita sostenibile è divenuta una delle grandi priorità dell’Unione.
L’UE ha bisogno di un’economia più competitiva e le regioni meno prospere dovranno mettersi al pari con le altre.
Un’economia più competitiva richiede maggiori investimenti in ricerca e istruzione, vaste reti di trasporto e di fornitura energetica, migliori condizioni occupazionali, e tutto ciò allo stesso tempo. Una semplice idea sviluppata da un laboratorio può essere messa a frutto da una piccola impresa in un punto qualsiasi dell’Unione ed essere commercializzata in tutta l’Unione garantendo la protezione totale dei diritti dei consumatori. In tal senso, finanziando idee di questo tipo è possibile fornire lavoro al ricercatore, all’imprenditore e al distributore, proteggendo al tempo stesso i consumatori.
La crescita sostenibile dipende anche dalla possibilità di sfruttare e sviluppare il potenziale di crescita dell’Unione. Questa priorità, nota come «coesione», consiste nel favorire la trasformazione economica soprattutto delle regioni meno favorite, affinché queste possano competere a livello mondiale. A tal fine, l’innovazione e l’economia basata sulla conoscenza offrono un’occasione unica.
Gli sforzi dell’Unione a favore della coesione mirano essenzialmente allo sviluppo infrastrutturale e alla formazione della forza lavoro a livello regionale favorendo l’utilizzo delle più avanzate tecniche produttive. Il bilancio UE viene inoltre impiegato per favorire la cooperazione economica e sociale al di là dei confini regionali e nazionali. L’intervento in ambito UE assicura spesso la condivisione delle esperienze e delle competenze, pratica che si rivela quanto mai vantaggiosa per le regioni meno prospere.
Per finanziare la spesa, l’Unione europea dispone di «risorse proprie». Giuridicamente si tratta di risorse spettanti all’Unione che gli Stati membri riscuotono a suo nome e trasferiscono al bilancio comunitario. Esistono tre tipi di risorse proprie:
• le risorse proprie tradizionali (RPT), che consistono principalmente nei dazi doganali percepiti sulle importazioni di prodotti provenienti dai paesi terzi;
• le risorse basate sull’imposta sul valore aggiunto (IVA), che consistono in un’aliquota percentuale uniforme applicata alla base imponibile IVA armonizzata di ciascuno Stato membro;
• le risorse basate sul reddito nazionale lordo (RNL), che consistono in un’aliquota percentuale uniforme applicata all’RNL di ciascuno Stato membro. Benché costituiscano un elemento di bilanciamento, queste risorse sono attualmente l’entrata più importante.
Nel bilancio affluiscono anche altre entrate, quali le ritenute fiscali sugli stipendi del personale delle istituzioni UE, i contributi versati da paesi terzi per alcuni programmi UE e le ammende inflitte alle imprese che violano le regole di concorrenza o altre norme. Queste risorse diverse ammontano all’1 % circa del bilancio.
I singoli Stati membri contribuiscono al bilancio comunitario in misura proporzionale alla rispettiva prosperità economica. Nel calcolare i singoli contributi sono tuttavia previsti alcuni adeguamenti («correzioni») a beneficio di Germania, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Regno Unito intesi a compensarne il contributo netto al bilancio, percepito come eccessivo.
D’altro canto, i fondi UE vengono distribuiti agli Stati membri e ai paesi terzi beneficiari conformemente alle priorità stabilite dall’Unione. Quando tutti gli Stati membri beneficiano di fondi UE, in virtù del principio di solidarietà che sottende ai programmi UE, soprattutto nell’ambito della politica di coesione, gli Stati membri meno prosperi ricevono proporzionatamente di più rispetto agli Stati più prosperi.
Responsabilità della gestione del bilancio
La Commissione europea è responsabile in ultima istanza dell’esecuzione del bilancio. Nella pratica, il bilancio UE viene speso in larga parte (76 % circa) nell’ambito della cosiddetta gestione condivisa, in virtù della quale sono le autorità degli Stati membri, e non i servizi della Commissione, a gestire le spese. Un insieme di pesi e contrappesi garantisce che i fondi in questione siano gestiti correttamente e nel rispetto delle norme in vigore.
La Commissione è tenuta a recuperare gli importi indebitamente versati, sia per errore sia per irregolarità o frode deliberata. Gli Stati membri sono parimenti responsabili della tutela degli interessi finanziari dell’UE e cooperano, a tal fine, con la Commissione e con l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), che ha il compito di indagare su possibili casi di frode e contribuire a rendere la legislazione europea «a prova di frode».
Italia, le criticità nella gestione indiretta
Tra le mille contraddizioni dell’Italia al tempo della crisi, il mancato utilizzo dei fondi europei è tra quelle che colpiscono di più. Per il periodo 2007-2013 Bruxelles ha messo sul piatto 59,2 miliardi per le Regioni, le Province e i Comuni che presentano un progetto coerente con gli obiettivi del fondo sociale e del fondo per lo sviluppo regionale.
Secondo l’attività di monitoraggio esercitata dalla Ragioneria generale dello Stato nelle regioni a Obiettivo Convergenza (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia) i pagamenti sono fermi al 22,60% (dati relativi al giugno 2012), mentre il livello di attuazione degli impegni è pari al 53,90%.
Quanto i fondi comunitari abbiano una reale efficace sul perseguimento delle finalità attribuite, a che tipo di interventi siano destinati, come vengono spesi, quanti finiscano nel calderone dei fondi inutilizzati o impiegati in modo improprio, sono temi oggetto di studio e confronto.
Per avere un quadro completo facciamo riferimento alla recente analisi IFEL, la fondazione sulla finanza locale dell’ANCI, secondo cui alcuni dei problemi legati allo sfruttamento delle risorse comunitarie risiedono nella frammentazione degli interventi, nella confusione tra gestione e programmazione, e nel dirottamento dei fondi comunitari su programmi poco strategici, tesi magari alla realizzazione di progetti che poco hanno a che fare con un razionale utilizzo dei fondi.
Per dimostrare queste tesi, l’IFEL spiega che i Comuni sono destinatari di quasi un quarto dei fondi FESR (Fondo europeo per lo sviluppo regionale) 2007-2013, pari a 30,6 miliardi di euro, ma per finanziare piccoli progetti difficili da monitorare.
I Comuni devono realizzare ben 2.410 progetti distribuiti per 1.293 enti, e cioè un progetto ogni sei Comuni che, nelle regioni del Sud, sale al 43% e in Calabria raggiunge la quota massima dell‘89%.
In una situazione tanto atomizzata, seguire la realizzazione di ogni singolo progetto, monitorarne i progressi e quindi elargire le tranches del finanziamento è molto difficoltoso. Il risultato è che il 40% dei progetti non è neppure all’inizio.
Non solo: il 43,5% dei progetti non supera il valore dei 150mila euro, configurando quasi la metà degli interventi come piccole operazioni che difficilmente potranno avere l’effetto di creare valore aggiunto per la realtà nella quale verranno realizzati, e che raramente riusciranno a colmare il gap di infrastrutture e di servizi pubblici che separa fortemente i territori più ricchi da quelli più svantaggiati.
Eppure gli ambiti di intervento vanno proprio in queste direzioni. Il grosso delle risorse (36,2%), dovrebbe favorire la riqualificazione di aree urbane, industriali e commerciali; il 33,3% essere investito per favorire la mobilità; l’11,9% per la salvaguardia del territorio; l’11,4% per la tutela del patrimonio artistico e culturale e il 7,2% dovrebbe essere utilizzata per inclusione sociale ed efficienza energetica.
Occorre tenere in considerazione come la lentezza della realizzazione dei progetti, possa costare molto caro. Se prima la restituzione automatica dei fondi avveniva al termine del ciclo di programmazione, ora l’Unione Europea ha imposto che i fondi inutilizzati per due anni vengano restituiti.
Come vengono spesi i fondi comunitari
Passaggio molto delicato è rappresentato dal modo in cui i fondi vengono spesi. Sulla carta destinati a finanziare opere che favoriscono lo sviluppo e la crescita, non sono rari i casi in cui i fondi europei siano destinati alla realizzazione di opere di dubbio valore. Nella città di Napoli negli ultimi anni, concerti di artisti internazionali, gare di vela, rifacimento di marciapiedi e asfaltatura di strade sono stati spacciati rispettivamente per progetti di tipo culturale e di riqualificazione urbana in grado di produrre sviluppo. Nonostante precise indicazioni comunitarie che escludevano una simile possibilità, è quanto accaduto – ad esempio – per via Marina, il cui progetto iniziale di trasformazione urbana, completato con quello di integrazione di un moderno sistema di trasporti su ferro e gomma, si è ridotto alla riasfaltatura della strada senza che venisse apportata alcuna trasformazione. La genesi di quei lavori è particolare: furono avviati prima del dovuto per non perdere i finanziamenti europei. Quattordici i milioni di euro messi a disposizione da Bruxelles. Dopo i primi cinque mesi in cui non si vide nemmeno un operaio, fu annunciato il grande progetto del “Boulevard di via Marina”, scontrandosi con vari problemi di natura tecnica. Il risultato finale si è tradotto nella sola rimozione dei sampietrini. Del progetto iniziale, costato al Comune un milione di euro, non è rimasto pressoché nulla. Un caso emblematico, ma anche vietato da Bruxelles in quanto con i fondi comunitari si dovrebbe fare sviluppo e non certo stendere bitume laddove già esisteva. Le Regioni hanno l’obbligo di seguire il criterio della riqualificazione urbana, per scongiurare la bocciatura dei valutatori europei, una volta scoperto l’uso difforme dal progetto approvato in origine, con il rischio di perdita del finanziamento stesso.
L’esperienza non è servita a molto, se è vero che nel 2012 il Comune di Napoli ha approvato tre interventi per un totale di 55 milioni di euro, da indirizzare sull’area orientale della città. I progetti rientrano in un ampio programma di riqualificazione urbana di un’area fortemente degradata, dall’estensione di 2,5 milioni di metri quadrati (circa il 25% dell’intero territorio cittadino) tra i quartieri di San Giovanni a Teduccio, Barra, Ponticelli e Poggioreale e caratterizzata da annosi problemi di inquinamento prodotto soprattutto dalla presenza di depositi petroliferi oggi non più attivi.
Sono già disponibili 200 milioni di fondi europei per le urbanizzazioni e sono previsti investimenti di imprenditori privati per la riconversione di siti industriali e artigianali dismessi per un importo di circa 2,5 miliardi. Gli interventi indicati nel progetto, già presentato all’Anci, riguardano la riqualificazione della strada lungo il confine portuale e delle aree della Marinella; la connessione tra il centro direzionale esistente e il suo completamento; il restauro degli edifici di archeologia industriale ex Corradini a San Giovanni a Teduccio, tre opere che «costituiscono – si legge nella relazione del progetto – tasselli indispensabili di una strategia urbana caratterizzata da una altissima complessità territoriale, dove aree marginali, ex industriali, urbanizzazioni convivono con realtà imprenditoriali di avanguardia».
In particolare, il primo intervento candidato a ricevere i finanziamenti statali, per un costo complessivo di 20 milioni, consiste nella riqualificazione di una strada di circa 3,5 chilometri tra corso Garibaldi e corso San Giovanni a Teduccio, con il rifacimento dei marciapiedi e delle banchine di fermata dei mezzi pubblici, la sostituzione dell’attuale manto stradale, il potenziamento dell’impianto d’illuminazione pubblica e la rifunzionalizzazione delle reti dei sottoservizi. Prevista anche una pista ciclabile e nuovi spazi verdi. Il progetto preliminare è già stato approvato nel 2005. Insomma, una storia che rischia di ripetersi nei modi e nelle forme già vissute.
Italia al primo posto nel ricorso a fondi europei diretti
Se a livello regionale i fondi vengono spesso restituiti o utilizzati in modo non appropriato, scenario completamente diverso riguarda i finanziamenti diretti. Secondo uno studio della Camera di Commercio Belgo-Italiana, l’Italia è al primo posto nell’Ue per numero di enti e imprese che beneficiano di finanziamenti europei a gestione diretta, erogati direttamente dalla Commissione sotto forma di appalti e progetti. Secondo i dati elaborati sulla base della documentazione della Commissione Europea, nel 2011 sono state quasi 7mila le imprese e gli enti italiani ad aver ricevuto un finanziamento direttamente da Bruxelles, superando Francia (5.200), Germania (4.800) e Regno Unito (4.600).
Lo studio invita a distinguere fra i fondi gestiti a livello locale da quelli erogati direttamente dalla Commissione: se è vero che le Regioni usano poco e male i fondi che l’Unione europea mette a loro disposizione, il sistema Italia fatto da imprese, università e associazioni ha raggiunto invece un livello di eccellenza negli appalti e nei progetti europei, tanto che ci piazziamo ai primi posti in Europa.
Circa il 70% delle imprese italiane che si sono aggiudicate un finanziamento europeo nel 2011 è del Nord Italia, il 22% del Centro e l’8% del Sud. Milano è di gran lunga al primo posto, con un’impresa italiana su cinque che lavora con finanziamenti europei.
Questi dati evidenziano come il nostro sistema imprenditoriale è sano e sta puntando sui finanziamenti europei, ma anche come il gap tra nord e sud è ancora più grande in questo settore.
Il rovescio della medaglia è costituito dall’ammontare dei progetti, in media meno significativi rispetto ai bandi vinti da imprese e soggetti di altri paesi. La media dell’ammontare complessivo in euro dell’insieme di appalti e progetti cui ha partecipato almeno un ente italiano durante il triennio 2009-2011 è pari a circa 3,29 miliardi di euro, contro i 4,49 miliardi dei tedeschi, 4,67 dei francesi e 4,05 dei britannici. Vicini all’Italia solo gli spagnoli con circa 3,27 miliardi.
Conclusione
Mentre ci s’interroga sul ruolo dell’Europa di domani, sospesa tra l’essere uno spazio politico nuovo rispetto a quello nazionale classico e un “non luogo” dove transitano le merci, in ambito nazionale si impone un radicale cambiamento del modo di stare in Europa. Questo processo dovrà riguardare anche la gestione dei fondi europei, con l’esigenza non solo di accelerare la spesa, ma di riqualificarla, evitando la dispersione in piccoli progetti marginali e concentrandola su interventi strategici. La strada da percorrere appare lunga e impervia, ma passa inevitabilmente attraverso la crescita di competenze e professionalità in grado di saper cogliere la sfida del nuovo settennato della programmazione comunitaria 2014-2020.
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