C’eravamo tanto amati
La sfida tra Inter e Juventus non rappresenta solo uno snodo importante in ottica campionato, ma anche il primo incrocio tra la “Vecchia Signora” e Antonio Conte dopo la traumatica separazione dell’estate 2014.
“Sono l’allenatore della Juve e il suo primo tifoso, ma sono soprattutto un professionista. Il giorno in cui dovessi lavorare per l’Inter, come per il Milan o la Roma o la Lazio ne diventerei allo stesso modo il primo tifoso e farei di tutto per vincere. Deve essere chiaro che io sono un professionista”. Era il 29 marzo 2013, vigilia di un Inter-Juventus, quando Antonio Conte, allora tecnico dei bianconeri, rilasciava queste dichiarazioni in conferenza stampa.
Quelle parole, apparentemente di facciata, si sarebbero trasformate sei anni e due mesi dopo in realtà, con l’ufficialità del suo ingaggio da parte del club nerazzurro arrivata il 31 maggio 2019, esattamente otto anni dopo la sua nomina ad allenatore della “Vecchia Signora”.
Era il 31 maggio 2011 e l’universo calcistico italiano aveva tutt’altro volto rispetto a oggi, giacché la Juve era reduce da un settimo posto (il secondo consecutivo), con annessa mancata qualificazione alle coppe europee, mentre l’Inter, a un anno di distanza dal triplete, pur non coronando la rimonta ai danni del Milan campione d’Italia, aveva vinto la settima Coppa Italia della sua storia.
Il flop bianconero era costato la panchina a Luigi Delneri, fortemente voluto dall’AD Giuseppe Marotta al momento del suo insediamento in casa Juve. Tra i tanti nomi accostati alla “Vecchia Signora”, gli addetti ai lavori vedevano in pole position André Villas-Boas (oggi allenatore dell’Olympique Marsiglia dopo un’esperienza tra 2016 e 2017 in Cina), che ad appena trentatré anni era stato capace di guidare il Porto a vincere campionato, coppa portoghese ed Europa League, guadagnandosi, in tal modo, l’etichetta di nuovo José Mourinho.
Il nome di Conte, invocato dai tifosi durante l’ultima gara casalinga di campionato contro il Napoli, non sembrava in cima ai pensieri della dirigenza juventina, tanto che, come rivelato dall’allenatore pugliese nella sua autobiografia del 2013, fu proprio lui a contattare il presidente Andrea Agnelli per chiedergli un incontro.
Conte, alla guida del Siena, aveva appena ottenuto la seconda promozione in Serie A della sua carriera da allenatore (la prima era arrivata con il Bari nel 2009), ma la sua esperienza nella massima categoria era limitata alle tredici panchine con l’Atalanta tra il settembre 2009 e il gennaio 2010. Proprio all’esperienza bergamasca risale il secondo e ultimo precedente tra Conte e la Juve, che il 7 novembre 2009 espugnò lo stadio Atleti Azzurri d’Italia con un netto 5-2.
Anche il primo confronto con i bianconeri era stato per lui amaro: in un contesto molto particolare (il campionato di Serie B 2006/2007), la Juve, vincendo 5-1 ad Arezzo, ottenne la matematica certezza dell’immediato ritorno nella massima serie, fermando la striscia di cinque successi consecutivi degli amaranto. La “Vecchia Signora” sarebbe stata indigesta per il tecnico pugliese soprattutto in occasione dell’ultima giornata di campionato. Infatti, mentre l’Arezzo espugnava Treviso, i bianconeri, infarciti di riserve e calciatori della Primavera, venivano sconfitti in casa dallo Spezia, salvo a scapito dei toscani, che videro così vanificarsi la rimonta compiuta nel finale di stagione (ventidue punti in nove turni).
“C’è profonda delusione e profonda amarezza, rispetto tanto i tifosi juventini, ma ho poco rispetto per la squadra. Retrocedere così fa male, però mi fa capire cose che già sapevo. Nel calcio si parla tanto, tutti sono bravi a parlare, adesso sembrava che i cattivi fossero fuori e che ci fosse un calcio pulito, infatti siamo contenti tutti, evviva questo calcio pulito”. Le parole post partita di Conte svelano il difficile rapporto tra la Juve e l’ex capitano bianconero negli anni immediatamente successivi al suo ritiro dal calcio giocato, avvenuto nell’estate del 2004, dopo tredici annate vissute a Torino, in cui, oltre a vincere quindici trofei, ha indossato la fascia di capitano dal 1996 al 2001.
La conferma giunse nell’estate del 2009, quando Conte, in rampa di lancio per aver riportato il Bari in Serie A otto anni dopo l’ultima volta, rifiutò la panchina della Juve per incompatibilità con il mercato che stava operando la dirigenza, all’epoca guidata da Jean-Claude Blanc e Alessio Secco, come da lui rivelato nella sua autobiografia: “Gli organi di informazione parlano con sempre più insistenza dell’arrivo a Torino di Diego, l’attaccante brasiliano del Werder Brema. Quando mi viene chiesto un parere, esprimo a Secco qualche riserva perché non era adeguato al mio gioco”.
Queste dichiarazioni rivelano il grande cambiamento di Conte nel corso degli anni. Arrivato alla Juve con la fama di integralista tattico, essendo il 4-2-4 il suo modulo di riferimento nelle precedenti esperienze, l’allenatore pugliese ha dimostrato di saper padroneggiare ogni tipo di schema e di idea di gioco, adattandoli sempre alle caratteristiche dei calciatori a disposizione.
La stagione 2011/2012 rappresenta ancora oggi il massimo capolavoro realizzato da Conte, il quale, consapevole di ereditare una squadra depressa dagli anni bui successivi a Calciopoli, puntò, fin dall’inizio del ritiro estivo, sulla voglia di rivalsa dei senatori (Gianluigi Buffon e Alessandro Del Piero su tutti), fondamentali per inculcare la mentalità vincente al resto del gruppo, all’asciutto di esperienza in grandi club, all’infuori di Andrea Pirlo, arrivato a parametro zero dal Milan, dove era stato ritenuto troppo frettolosamente finito.
Dopo aver lavorato a lungo sul 4-2-4, Conte decise ben presto di passare al 4-3-3 sia per la bocciatura delle ali a disposizione (Miloš Krasić, impiegato solo nove volte nell’intera annata, ed Eljero Elia, pagato 9 milioni all’Amburgo e utilizzato in appena cinque occasioni tra campionato e Coppa Italia) sia per trovare spazio in pianta stabile ad Arturo Vidal, giunto a Torino in sordina dal Bayer Leverkusen, ma da subito fondamentale nel garantire qualità e quantità con il suo dinamismo e i suoi inserimenti al centrocampo bianconero, magistralmente diretto da Pirlo, probabilmente il calciatore che ha maggiormente cambiato gli equilibri del campionato italiano nel nuovo millennio. I sette gol del cileno, uniti ai nove (dieci considerando la Coppa Italia) di Claudio Marchisio, sopperirono alla sterilità dell’attacco bianconero, in cui solo Alessandro Matri riuscì ad arrivare alla doppia cifra.
Un ulteriore saggio del camaleontismo tattico di Conte fu dato il 29 novembre 2011, quando la Juve si presentò a Napoli con un inedito 3-5-2, schierandosi in maniera speculare all’undici partenopeo allenato da Walter Mazzarri. La difesa a tre, ribattezzata BBC dal nome dei tre interpreti (Andrea Barzagli, Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini), a partire da quella gara, sarebbe diventata il riferimento principale nell’intera carriera del tecnico salentino.
Tale formula ebbe due notevoli benefici: valorizzare al meglio Bonucci, rimasto in disparte nei primi mesi della stagione, come regista difensivo, garantendo un’altra fonte di gioco ai bianconeri, specialmente quando le formazioni avversarie ingabbiavano Pirlo; rendere impermeabile la retroguardia juventina, che, malgrado schierasse i medesimi effettivi dell’annata precedente (in cui aveva subìto quarantasette reti), fu di gran lunga la migliore d’Italia con soli venti gol al passivo (record nella storia della Serie A con venti squadre che sarebbe stato eguagliato dalla Juve stessa nel 2015/2016).
Tra rilanci (emblematico il caso di Barzagli, accompagnato da moltissime perplessità nel gennaio 2011 al suo arrivo, ma perno fondamentale della difesa bianconera, al punto da riguadagnarsi dopo oltre tre anni la convocazione nella Nazionale italiana) e scoperte, Conte (abile anche nel centellinare al meglio Del Piero, decisivo, entrando a partita in corso, nel finale di stagione con le reti all’Inter e alla Lazio) impostò un calcio basato sul possesso palla (primo in Italia e terzo in Europa dietro soltanto al Barcellona e al Bayern Monaco), sul ritmo e sull’intensità, approfittando dell’assenza juventina dalle competizioni europee e della conseguente possibilità di poter scendere in campo una volta a settimana.
Il manifesto della perfetta applicazione dei princìpi di gioco ricercati dall’ex capitano bianconero fu la vittoria contro il Milan del 2 ottobre 2011, con il 2-0 ottenuto solo negli ultimi minuti che non rese giustizia alla netta supremazia della “Vecchia Signora”.
Al termine di un lungo, estenuante e polemico testa a testa con i favoritissimi rossoneri, la Juve finì il campionato imbattuta (terza squadra a riuscirci dopo il Perugia 1978/1979 e il Milan 1991/1992, ma prima a farlo in un torneo a venti squadre), vincendo il primo titolo del post Calciopoli. Inoltre, i bianconeri tornarono in finale di Coppa Italia dopo otto anni, ma la sconfitta contro il Napoli negò la doppietta nazionale e pose fine all’imbattibilità stagionale dopo quarantadue partite.
Il 2012/2013 per Conte iniziò ufficialmente il 9 dicembre, nella trasferta di Palermo, dal momento che il tecnico era stato costretto a scontare una squalifica di quattro mesi per una presunta omessa denuncia risalente ai tempi in cui allenava il Siena.
I bianconeri consolidarono il proprio dominio in Italia, conquistando agevolmente il campionato, e condussero un discreto cammino in Champions League, estromettendo il Chelsea campione in carica e venendo eliminati nei quarti di finale dallo stellare Bayern Monaco di Jupp Heynckes, poi vincitore della competizione.
Dal punto di vista tattico, Conte confermò per gran parte dell’annata il 3-5-2, ma l’esplosione di Paul Pogba, acquistato a parametro zero dal Manchester United, e la scarsa prolificità dell’attacco convinsero l’allenatore a schierare il 3-5-1-1 negli ultimi mesi di stagione, con lo spostamento di Marchisio nel ruolo di trequartista alle spalle di Mirko Vučinić.
“Non abbiamo un centravanti, perché il nostro centravanti è lo spazio” aveva dichiarato qualche anno prima Pep Guardiola riferendosi al suo Barcellona. La seconda Juve di Conte si avvicinò molto a questa filosofia di gioco, poiché il continuo movimento fatto dall’attaccante montenegrino permetteva gli inserimenti delle mezzali, in particolare di Vidal, miglior marcatore stagionale con quindici reti.
La terza e ultima annata di Conte sulla panchina bianconera fu sostanzialmente a due facce. Finalmente rinforzatasi in attacco con gli arrivi di Carlos Tévez e Fernando Llorente (autori rispettivamente di ventuno e diciotto gol), la Juve conquistò il terzo titolo consecutivo (evento che nella storia della “Vecchia Signora” non si verificava dall’inizio degli anni Trenta, all’epoca del Quinquennio d’oro), finendo il campionato all’incredibile quota di 102 punti (record nei maggiori campionati europei).
Tutt’altro sapore ebbe la campagna continentale. I bianconeri furono eliminati nella fase a gironi di Champions a causa della sconfitta nell’ultimo turno giocato a Istanbul contro il Galatasaray, in un match prima sospeso per neve e poi ripreso il pomeriggio successivo con il campo in condizioni al limite della praticabilità. Le dichiarazioni successive all’eliminazione di Conte aprirono una prima crepa nel suo rapporto con la dirigenza: “Credo che da qui a molti anni a venire sarà dura vedere una squadra italiana in finale di Champions, so di averlo già detto, ma di solito ci azzecco”.
Frase che sarebbe stata smentita appena un anno e mezzo dopo dal suo successore sulla panchina della Juve, Massimiliano Allegri, il quale, con una rosa quasi del tutto invariata rispetto a quella di Conte, portò i bianconeri in finale a dodici anni di distanza dall’ultima volta.
La delusione più grande del triennio del tecnico pugliese arrivò il 1° maggio 2014, con la Juve che non andò oltre lo 0-0 casalingo con il Benfica, non riuscendo a ribaltare il 2-1 rimediato a Lisbona e mancando la finale di Europa League da disputare allo Juventus Stadium a un passo dal traguardo. Conte finì sul banco degli imputati per la cattiva gestione del turn over, avendo schierato la maggior parte dei titolari contro il Sassuolo, appena settantadue ore prima del match di ritorno con i lusitani.
In seguito alla matematica certezza della vittoria dello scudetto, avvenuta il 4 maggio, Conte rilasciò una dichiarazione destinata a restare un cult e che avrebbe incrinato definitivamente il legame con i vertici societari: “Quando ti siedi in un ristorante dove si pagano 100 euro, non puoi pensare di mangiare con 10 euro”. Chiaro il riferimento alla differenza di budget tra la Juve e i top club europei per giustificare la difficile avventura continentale.
Dopo un’iniziale conferma, il 15 luglio 2014, tra lo stupore generale, Conte rassegnò le proprie dimissioni per divergenze con la società, sebbene avesse guidato i primi allenamenti stagionali della “Vecchia Signora”.
Anche nelle successive esperienze Conte ha confermato la sua bravura di ricostruttore, portando la Nazionale italiana a un passo dalla semifinale europea nel 2016 con una delle rose meno forti nella storia degli azzurri e il Chelsea di nuovo sul tetto d’Inghilterra dopo il decimo posto dell’annata precedente. Durante il biennio ai Blues, l’allenatore ha avuto modo di mostrare ancora una volta la propria duttilità tattica, abbandonando la difesa a 4 delle prime giornate per passare al 3-4-3, il sistema ideale per esaltare le capacità del tridente formato da Eden Hazard, Diego Costa e Pedro, protetto dal duo di centrocampo costituito da Nemanja Matić e N’Golo Kanté.
Fisicità e solidità sono i capisaldi che hanno accompagnato il primo mese e mezzo di Conte alla guida dell’Inter. Il trio difensivo composto da Diego Godín, Stefan de Vrij e Milan Škriniar ha pochi eguali in Europa e nel mondo, mentre l’inizio di stagione di Stefano Sensi, già a segno tre volte, ha fatto tornare in mente le capacità d’inserimento di Vidal e Marchisio alla Juve. In attacco, fortemente voluto dal tecnico pugliese, Romelu Lukaku abbina fiuto del gol e bravura nell’aprire spazi per i compagni.
Non è un caso che i nerazzurri abbiano fatto registrare la miglior partenza in campionato dopo cinquantadue anni, vincendo le prime sei gare, compreso il derby, ed eguagliando lo score dell’Inter di Helenio Herrera del 1966/1967.
Diverso il discorso in campo europeo, che si dimostra il tallone d’Achille di Conte, dove la qualificazione agli ottavi di finale appare già compromessa, avendo ottenuto un solo punto (il sanguinoso 1-1 casalingo con lo Slavia Praga) in due gare, nonostante l’ottimo primo tempo disputato al Camp Nou contro il Barcellona, dove la grande parata di Marc-André ter Stegen su Lautaro Martínez ha impedito di andare a riposo sul doppio vantaggio.
“Solo chi ha contribuito a costruirla può sconfiggerla”. Come recita lo spot di Sky in vista del big match e come si augurano i tifosi nerazzurri, Conte potrebbe essere la persona giusta per battere la squadra campione d’Italia da otto anni di fila e riportare l’Inter a essere una seria pretendente alla vittoria dello scudetto.
Stefano Scarinzi
6 ottobre 2019
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