A un passo dal cielo
Lewis Hamilton ha vinto il sesto Mondiale di Formula 1 della sua carriera, portandosi a un solo titolo dal primatista assoluto Michael Schumacher.
Dici Lewis Hamilton e dici record. L’elenco di primati detenuti dal pilota britannico è sterminato e la vittoria del Mondiale 2019, il sesto della sua carriera, lo ha avvicinato a Michael Schumacher, sette volte campione del mondo.
Il campionato 2019 ha confermato lo strapotere di Hamilton, giunto al quinto titolo nelle ultime sei stagioni, e della sua Mercedes, che, con il sesto alloro iridato di fila nei costruttori, ha eguagliato la Ferrari come numero consecutivo di vittorie in questa specifica categoria.
Al di là dell’indiscutibile talento, evidente fin dall’esordio in F1 nel 2007, Lewis ha mostrato in maniera sempre più nitida una straordinaria attitudine psicologica nel reggere la pressione derivante dall’essere il favorito, cosa che avviene dal 2014, anno in cui la Mercedes – rientrata nel circus nel 2010 con la coppia formata da Schumacher e Nico Rosberg –, approfittando delle novità tecniche introdotte (su tutte, l’utilizzo dei nuovi motori turbocompressi in luogo dei V8 aspirati in uso fino al 2013), ha scavato un abisso rispetto al resto della concorrenza, dando il via al dominio incontrastato che dura tuttora.
Il perfezionamento di Hamilton ha raggiunto il suo culmine nel corso del Mondiale 2018, quando ha battuto Sebastian Vettel e la Ferrari principalmente sotto il punto di vista mentale, riuscendo, in tal modo, a entrare prima del collega tedesco (trionfatore dal 2010 al 2013 con la Red Bull) nell’esclusivo club dei pentacampioni, in compagnia di Juan Manuel Fangio e dietro al solo Schumacher.
Nel 2018, inoltre, Lewis ha fugato definitivamente le perplessità che lo avevano accompagnato fino a quel momento, essendo stato spesso considerato un pilota in difficoltà quando chiamato a competere punto su punto per la vittoria di un campionato del mondo. Infatti, il britannico aveva tremendamente faticato ogni qual volta si era ritrovato a doversi giocare il titolo senza la possibilità di commettere errori.
Nel 2007 e nel 2008, alla guida della McLaren, la mancanza di esperienza aveva avuto un ruolo importante nelle imperfezioni delle ultime gare: nel primo caso gli costarono il titolo (sarebbe stato il primo pilota a vincere il Mondiale nella stagione d’esordio); nel secondo lo condussero a una vittoria thrilling, con il sorpasso a Timo Glock a due curve dalla bandiera a scacchi del Gran Premio del Brasile che gli evitò un’ulteriore beffa, rendendolo il più giovane campione del mondo a 23 anni, 9 mesi e 26 giorni (primato poi battuto da Vettel nel 2010).
Nel 2016, invece, reduce da due campionati vinti con relativa facilità con la Mercedes (dov’era approdato nel 2013 al posto di Schumacher dopo qualche annata in chiaroscuro con una McLaren ormai non più competitiva ai massimi livelli), è stato sconfitto dal compagno di squadra Rosberg al termine di una stagione segnata da grandi tensioni tra i due, sfociate in maniera palese nel GP di Spagna, in cui Lewis, superato da Nico alla partenza e finito nell’erba, nel tentativo di rientrare in pista aveva colpito il tedesco, costringendo entrambe le monoposto al ritiro.
La sconfitta di quell’anno, probabilmente la più bruciante nella pluridecorata carriera di Hamilton (che, nelle restanti annate, ha sempre sopravanzato il compagno di scuderia, compreso il bicampione in carica Fernando Alonso nel 2007), ha tuttavia avuto un effetto diametralmente opposto sui due protagonisti: mentre Rosberg ha deciso di ritirarsi subito dopo la vittoria, prosciugato dalla sfida con il britannico, quest’ultimo ha tratto insegnamento dall’esperienza negativa, trasformandosi nel “cannibale” che ha monopolizzato il successivo triennio ed entrando di diritto nel gotha dei migliori piloti di tutti i tempi.
Il capolavoro che ha attestato la nuova versione di Lewis priva di punti deboli è stato il Gran Premio di Germania del 2018. Giunto a Hockenheim con otto punti di distacco da Vettel – galvanizzato tra l’altro dal correre davanti ai tifosi di casa – e con una vettura non superiore alla Ferrari, Hamilton ha sovvertito i pronostici e, pur partendo dalla 14ª posizione, è riuscito a vincere la gara con una sontuosa rimonta che ha messo in luce le sue doti sul bagnato, approfittando anche del ritiro del rivale, scattato dalla pole position, ma finito a muro, incapace di reggere la pressione della rimonta dell’inglese.
Il punto di svolta segnato dalla Germania avrebbe trovato una nuova conferma poche settimane dopo, a Monza, dove un frastornato Vettel, superato alla partenza da Hamilton, cercando un controsorpasso impossibile alla Variante della Loggia, è finito in testacoda ed è stato costretto a ripartire dall’ultimo posto, pregiudicando in maniera definitiva le residue chance di lottare per il titolo.
Cresciuto con il mito di Ayrton Senna, di cui ha mostrato il casco – donatogli dalla famiglia del pilota brasiliano – dopo la pole position conseguita nel GP canadese del 2017 (in cui aveva raggiunto, a quota 65, proprio “Magic”), Hamilton è riuscito a spingersi oltre le più rosee aspettative riposte in lui da Ron Dennis, presidente della McLaren dal 1981 al 2009, che nel 1998 decise di inserire il tredicenne Lewis nel programma Young Driver Development della scuderia inglese, seguendone i progressi nelle serie minori automobilistiche.
La vittoria del Mondiale di GP2 nel 2006 con l’ART Grand Prix (aveva sostituito Rosberg, campione in carica e passato in F1 con la Williams) spinse Dennis a dargli il volante della McLaren a partire dal 2007, diventando il primo pilota nero a prendere parte a una corsa di Formula 1.
Da allora, Lewis ha corso 250 Gran Premi, ottenendo in ogni singola stagione almeno un successo e una pole position e stabilendo una lunghissima serie di record, che nel 2020 potrebbe impreziosire con i due più importanti: il settimo titolo mondiale, eguagliando così Schumacher, e il maggior numero di vittorie, con il “Kaiser” (a cui ha già sottratto il primato di pole position – 88 a 69) che dista solo sette lunghezze (91 a 84).
Continuando con il ritmo forsennato impresso dal 2014 (62 successi su 121 GP totali), la domanda da porsi non è “se”, ma “quando Hamilton riuscirà superare Schumi”.
Stefano Scarinzi
2 dicembre 2019
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