PINOCCHIO di Matteo Garrone
di Nazareno Barone.
“L’uomo si lega con le proprie opere, con il territorio, con la casa…” (Ferdinand Tonnies)_
È strano rivedere Pinocchio a quasi cinquant’anni di distanza da quello di Comencini, una favola senza tempo, questo apparentemente dolce sogno a occhi aperti. Ma ciò che è veramente inaspettato è assistere alla proiezione su grande schermo della trasposizione della storia di Collodi fatta da Garrone, quel Matteo Garrone di Gomorra film, regista straordinario nel raccontarci senza veli una realtà come le vele, brillante cineasta nel portarci con uno stile, talvolta crudo, in quel sottobosco che è l’esistenza vissuta in (non) luoghi come Castelvolturno, Villaggio Coppola o ancora Ostia.
“Pinocchio” si pone allora come un film esplicitamente “natalizio”, da grande pubblico: i bambini in sala urlano e suggeriscono ai genitori le battute della Fata Turchina, in un’atmosfera ricca di emozioni, quelle stesse che però si vivono soltanto in sala e grazie alla partecipazione delle persone e a questa reminescenza quasi circesca, da cinema di altri tempi! Si, perché nella pellicola in questione troviamo poche, pochissime tracce di quel rapimento emotivo sopracitato, considerando che, oltre l’interpretazione buona di Benigni (Geppetto) e quella clamorosamente inquietante di Ceccherini (La Volpe), il Pinocchio di Garrone procede, al di là della facile metafora, come un film di legno che si chiude in una sceneggiatura eccessivamente piatta e ricca di retorica. Troppo poco per aggiungere un punto importante alla carriera di un regista tanto coraggioso e audace per il panorama italiano; perché se nell’esordio folgorante de “L’imbalsamatore” e nella sua penultima opera “Dogman”, la favola grottesca ci appare vera, autentica, umana, tanto nel plot quanto nel concept di fondo, qui invece si rimane allibiti nel constatare quanto l’artificio poco sincero faccia da contraltare alla splendida fotografia (di stampo garroniano per certi versi) e alla sublime tecnica generale, regia inclusa, sebbene diversa dall’occhio ambiguo che scruta la realtà come in “Reality”. E si rimane attoniti anche dinanzi all’interpretazione generale degli attori, assistendo a quanto questa risulti confusa, a tratti imbarazzante per quanto eccede nel macchiettismo, nonostante noi tutti sappiamo che Matteo Garrone utilizza spesso attori protagonisti alla prima esperienza importante. Certo, Gigi Proietti è bravo nei panni di “Mangiafuoco”, ma fine a sé stesso. In compenso, i caratteristi non convincono mai, a partire da Rocco Papaleo nei panni del Gatto, per finire al Grillo, interpretato da Ciripiripì kodak aka Davide Marotta; e gli altri non sono da meno, invischiati in questa giostra artificiosa che fatica a decollare (e se il giostraio voglia o meno farla volare, non ci è tenuto di saperlo). Di Federico Ielapi che interpreta Pinocchio meglio tacere, pur non guastando un po’ di ingenuità appropriata per il personaggio; Alida Baldari Calabria (Fata Turchina bimba), invece, è stupefacente per padronanza del mezzo attoriale, anche rispetto a Marine Vacht (Fata adulta). Il piccolo ruolo da strillone del napoletano Ciro Petrone (spesso ricordato come il personaggio di Pisellino in “Gomorra”) è azzeccato. Per il resto non c’è molto da dire.
Non è il caso di fare un confronto improponibile con lo sceneggiato televisivo di Comencini, del ’72; d’altronde Benigni non è e non sarà mai Nino Manfredi, così come Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, dall’alto della loro mastodontica e camaleontica interpretazione, non sono nemmeno lontanamente accostabili ai vari Papaleo e Ceccherini.
L’aspetto interessante di questo Pinocchio ha a che fare piuttosto con l’aspetto sociale e territoriale; la metafora che spinge Geppetto a cercare disperatamente materia prima, occupazione e denaro. Geppetto/Benigni, un uomo che non riesce neanche a sostenersi dal punto di vista del fabbisogno-cibo.
Parlo dell’uomo dei nostri giorni, con la sua urgenza di creare, costruire, lavorare, investire nel proprio futuro, preferendo rinunciare anche a un pasto per poter scippare una commissione, il rifacimento di una porta o quello di un tavolo in legno traballante; il coraggio di chi, pur di trovare della materia su cui lavorare è disposto a spogliarsi delle propria dignità e chiedere al proprio vicino un pezzo di legno, il tronco di un albero. Eccoci giunti, dunque, alla prospettiva esistenziale più significativa del film, la dicotomia fra due diverse forme ‘del vivere’. Da un lato la Gemeinschaft (Comunità) e dall’altro la Gesellschaft (Società). Se nella Gemeinschaft (teorizzata dall’imponente sociologo tedesco Ferdinand Tonnies a fine ‘800) Geppetto vive attraverso i valori di comunità, condivisione e comprensione (quest’ultima “derivante dalla conoscenza reciproca che a sua volta richiede partecipazione e quindi vita comune”) e si basa, talvolta anche ingenuamente, sull’amicizia (“fondata su un modo di pensare concorde e dalla comunanza di arti e mestieri, professioni”), suo figlio Pinocchio (un figliolo che da subito ci appare “moderno”, scaltro, birbante, curioso e smanioso di emigrare) dovrà fare i conti con la Gesellschaft, con la società che rende gli individui separati (detto sempre con Tonnies) e il cui rapporto più significativo è rappresentato dal rapporto di scambio. Questo “avviene proprio perché ognuno ritiene di ricevere qualcosa che ha un valore maggiore di quello che cede, altrimenti non entrerebbe neppure nel rapporto”; in sostanza, “il guadagno dell’uno è la perdita dell’altro”. Così si manifesta l’incontro fortuito (ma logico) e le sue conseguenze fra Pinocchio e “il gatto” e “la volpe”; sempre (o quasi) a favore dei più astuti ed esperti, di coloro che – tornando ai nostri giorni – sono abituati alla vita di città, sono in qualche modo “sciacalli metropolitani”.
E se Pinocchio ambisce ad essere anch’esso (egli!) un cittadino (un bambino vero e non di legno), a causa di questa sua ambizione ne pagherà i costi, ne subirà la morale (dal Grillo Parlante già citato e dalla Fata Turchina piccola e adulta/”madre”, nonché dalla Lumaca, iper obesa governante della fata), ne sarà affascinato (da Lucignolo, Alessio Di Domenicantonio, perfetto attore bimbo) e infine ne sarà inghiottito attraverso il percorso di crescita e ricerca del padre disperso, nel senso di colpa causato dalla sua stessa fuga (quella di un bambino disubbidiente). E ancora ne capirà il senso, apprenderà che tale percorso (che passa anche attraverso la pancia del pesce cane) sarà servito per tornare, ritornare, da bambino di legno e poi finalmente da bambino vero, sui suoi passi, in un crescendo di salvezza (Pinocchio salva Geppetto) e auto salvezza.
Sintetizzando: solidarietà e occupazione, perdita degli affetti, coraggio e autodeterminazione rappresentano Geppetto; nascita, ricerca dell’ignoto, fuga, crescita e ritorno rappresentano invece Pinocchio. L’unione fra i due sarà, come da confezione classica, inevitabile, un destino che non può essere scalfito.
Soltanto nel finale Pinocchio non potrà, dovrà e forse non vorrà più “temere” ed essere “preda dei venti…”!
Vorrei concludere con una critica dell’indicibile. Sostengo che dal punto di vista della trama visiva, devo dirlo e non posso tacere: Fellini è morto! E – almeno ad oggi – non è nato nessuno come lui. E con ciò voglio dire che la magia con la quale questo “bugiardo vero” (nato a Rimini) riusciva a stupire e sconcertare, nessuno più è riuscito nemmeno lontanamente ad emulare (né Garrone, né tantomeno Sorrentino); i giochi di prestigio in folli carrellate laterali e gli spunti fiabeschi, fumosi – eppure consistenti e determinanti per la Storia del Cinema mondiale – restano nella memoria collettiva internazionale con un solo nome, trasformato (e qui cito al contrario il grande critico Paolo Mereghetti) dallo stesso Federico nazionale in aggettivo: felliniano!
Ho evitato di parlare, non sia mai, del Pinocchio di Carmelo Bene, anche perchè rischierei di smarrirmi; ma – tornando al grande schermo – se il Cinema di ogni epoca e tempo avesse potuto chiedere a gran voce un binomio perfetto fra soggetto (persona e soggetto trattamento) e oggetto (il rifacimento del romanzo di Collodi), questo binomio sarebbe uscito fuori come un urlo che suona: FELLINI, CREA PINOCCHIO! Ma questa è un’altra favola…
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