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La crisi dell’Europa “burocratica”

pierucci-5-12-2016Relazione del prof. Andrea Pierucci sulle possibili soluzioni per la crisi europea partendo dalla semplificazione dei meccanismi burocratici, discussa al Seminario “Ripensare l’Europa” (Napoli 5/12/2016)

La crisi dell’Europa e dell’Unione europea è ormai sotto gli occhi di tutti; né, purtroppo, si vedono apparire ricette miracolose che potrebbero salvare l’una e l’altra. Le due crisi sono intimamente legate, ma la più drammatica è la crisi dell’Europa e la perdita di una bussola di principi formatisi sotto il fuoco dei cannoni, il dramma dell’olocausto e di tutti gli altri massacri e la necessità di ricostruire dopo la seconda guerra mondiale. La libertà che ne era scaturita, la tensione verso la giustizia sociale, la ferma difesa dei diritti e la lotta per essi ne erano la conseguenza. Il progresso sperato era economico ma non solo. Questa bussola non è completamente persa, ma per alcuni, dimentichi del passato e poco interessati al futuro – populisti e “fascisti” d’ogni genere – le coordinate che essa indica sono un fastidio. La paura del futuro (anticamera di tutte le dittature) è diventata un dogma di (mala)fede. Come negare, però, che la politica di molti governi dell’Europa e dell’UE in particolare sia stata cieca ai grandi cambiamenti, asservita troppo spesso a interessi privati in contrasto con gli interessi pubblici e, ancor più spesso, legata agli interessi di alcuni politici piuttosto che a quelli della politica? Questo vale in tutti gli Stati europei, salvo laddove un governo a dir poco autoritario ha preso in mano le cose (v., per esempio, Turchia e Russia); più precisamente in quei sistemi si può parlare con difficoltà dei comportamenti inammissibili dei governi. Come ritrovare un sistema di principi di libertà, di diritto e di progresso nella realtà odierna? Non so dare per il momento una risposta.
La crisi dell’UE è basata invece su dati più concreti: in materia economica, di migrazioni e di politica estera l’Unione non sta dando la risposte necessarie e, anzi, in materia di politica economica ha gestito la crisi al peggio; né basta dire – il che, peraltro, è pura verità – che l’UE è stata esautorata da Stati egemoni e Stati “vassalli”, tutti concordi intorno alla Dea Austerità. Il ritorno del Congresso di Vienna al posto del Consiglio europeo ha “affascinato” molti dei nostri massimi dirigenti! Al punto che il ritorno ai criteri internazionali di conflitto che ha soffocato a lungo l’Unione europea è stato classificato da alcuni esperti di questioni militari come una guerra non convenzionale. Non è comunque questo il luogo per fare la lista dei problemi, anche istituzionali, dell’UE, né dei relativi rimedi, perché vorrei limitarmi a sollevare un problema, uno solo, che però non mi pare di secondaria importanza.

Quale burocrazia?
Renzi strepita – a giusto titolo – contro la burocrazia europea. Bene. In effetti, molto spesso, le istituzioni europee, la Commissione in primis, danno risposte del tipo: non si può, le regole non lo consentono; si devono rispettare gli impegni, anche se presi in tutt’altra situazione. Il tentativo di ripresa economica, la politica delle migrazioni sono ingessati da norme ormai di un’altra epoca. Ecco, ma è colpa dei burocrati o della Commissione?
E’ certo che ogni sistema politico da molti secoli a questa parte ha fra i suoi fondamenti l’esistenza di una burocrazia. Esiste cioè un corpo costituito di persone la cui funzione è mettere in pratica le decisioni del Re, le leggi o gli altri atti di governo e far presente ai decisori le situazioni sociali, economiche e politiche che attraversano un territorio. La burocrazia è uno strumento senz’altro indispensabile – non abbiamo ancora trovato uno strumento per sostituirla – e utile ed è anche una parziale garanzia anche nei confronti dei cittadini per quel che riguarda il rispetto delle leggi. Naturalmente subisce anch’essa delle patologie caratteristiche e gravi – ma non certo esclusive- quali la corruzione, la tendenza al sopruso, la tendenza a sostituirsi al decisore politico, la tendenza a “sclerotizzare” politiche e procedure.
L’UE dispone di un’importante burocrazia con i pregi e le patologie suindicati. Certamente, in ogni caso, la sua esistenza è stata finora una delle ragioni del successo dell’UE. Tengo a ribadire che tale burocrazia ha la caratteristica di eseguire per l’essenziale decisioni altrui, cioè leggi, decisioni di bilancio, indirizzi politici. Immaginiamoci che questa burocrazia non esista o che non abbia, in generale carattere di neutralità. La preparazione delle leggi, in modo relativamente neutro, la spesa, inclusa l’esecuzione di programmi, la valutazione dei comportamenti dei soggetti pubblici e in certi casi privati rispetto ai trattati ed alle norme comunitarie finirebbero per comportare sistematicamente decisioni “politiche” legate ai mutevoli interessi, più che altro lobbistici, negoziazioni a non finire: non esisterebbe semplicemente un “sistema”. Ovvio che anche la burocrazia dell’Unione, specie quella parte che è inquadrata nella Commissione europea ha pieno diritto alle numerose critiche che riceve: attenzione eccessiva al punto di vista delle lobbies, ritardi, decisioni talora contraddittorie, comportamenti irregolari, proprio come ogni altra burocrazia.
Non sono sicuro che le critiche alla burocrazia di Renzi ed altri si riferiscano a questa definizione di burocrazia o essenzialmente ad essa. Penso che, invece, si riferiscano in definitiva ad alcune caratteristiche del sistema europeo e più precisamente del suo sistema normativo. Vorrei affrontare brevemente due punti.

I Trattati
Il primo riguarda i Trattati e la maniera di scriverli. Si tratta di atti “lunghi” in termini costituzionali, cioè di atti che contengono obblighi e diritti precisi, non solo in termini generali (diritti fondamentali, non discriminazione o tutela dell’ambiente), ma anche in termini normativamente specifici che, appunto, creano di per sé diritti e obblighi in capo agli stati o ai privati o che prefigurano in modo rigido il contenuto della normativa successiva. Esempi tipici si ritrovano in materia di libera circolazione, specie dei beni, di agricoltura o di trasporti o, più tardi, di ambiente. Queste materie erano tuttavia trattate in modo da lasciare al legislatore secondario un po’ di spazio per decisioni adattate ai tempi ed alle diverse realtà. D’altra parte, gli Stati e le Istituzioni certamente fino alla fine degli anni 80 e anche oltre erano chiaramente disponibili ad applicare la cd clausola dei ,poteri impliciti (all’epoca, art. 235 del Trattato CEE) per adattare norme e politiche alle mutevoli realtà, anche in assenza di disposizioni del Trattato e eventualmente attraverso interpretazioni larghe del medesimo. Ma la tendenza a fissare regole specifiche, obbligatorie e politicamente consacrate nei Trattati si è sviluppata con l’Atto Unico, col Trattato di Maastricht e con i Trattati seguenti. Questo non è avvenuto in modo uniforme. Se le disposizioni in materia di cooperazione giudiziaria hanno lasciato progressivamente spazio a interpretazioni e attuazioni molto spinte, clausole di flessibilità opportune, altre, soprattutto le disposizioni in materia economica e monetaria sia contenute nei Trattati che in atti annessi, hanno raggiunto livelli di dettaglio e di rigidità in aspetti non certamente costituzionali quali i famosi “parametri di Maastricht”. Politicamente le ragioni di tale rigidità e dettaglio si capiscono; tutti gli Stati membri erano assai reticenti e sospettosi nei confronti degli altri di fronte alla creazione di una moneta unica e lo sono rimasti, creando clausole sempre più strette. Se ciò ha permesso lo svilupparsi di accordi di enorme importanza, ha anche creato una serie di norme progressivamente sclerotizzate. Né vi era modo di cambiarle, poiché ogni volta si sarebbe dovuto modificare il Trattato, procedura lunga, complessa e da concludersi sempre all’unanimità. Praticamente, cambiare o adattare queste norme alle realtà in evoluzione si rivelava quasi impossibile. Basta che uno stato non sia tanto d’accordo, per lasciare tutto come sta. Così si arriva alla crisi economica del 2008 ed ai suoi seguiti. Ed ecco che la politica assume i contorni della burocrazia.
E’ sufficiente che alcuni Stati membri alzino la bandiera delle regole e degli impegni presi (ma in una situazione politica ed economica estremamente diversa) per imporre agli altri comportamenti …autolesionistici! La Commissione europea, di per sé organo politico, sia pure a capo di una importante burocrazia, è obbligata a eseguire quanto richiesto dai Consigli europei. Questi ultimi si rappresentano per diversi anni non tanto come decisori politici di alto livello, ma come organi essenzialmente burocratici, di pura esecuzione di quanto deciso tempo addietro. Questo atteggiamento, profondamente diverso da quanto previsto dalla lettera e dallo spirito del trattato circa il ruolo del Consiglio europeo, rende il sistema estremamente rigido e gli toglie la capacità di adattarsi. La difficoltà di uscire da questo ginepraio è provata dalle oltre trenta riunioni del Consiglio europeo in meno di tre anni (di solito si tengono tre riunioni l’anno), necessarie per definire parola per parola i dettagli delle decisioni, peraltro mai innovative quasi sempre rispondenti ad un’emergenza vera o annunciata. E’ così che la Cancelliera tedesca esercita il ruolo esercitato da Metternich in altra occasione, facendosi forte degli impegni del trattato (della “legittimità”) e traducendoli financo in imperativi morali. E, in fondo, sarebbe stato un comportamento riprovevole, ma normale. Il più sorprendente è l’accondiscendenza ( si è parlato di “appecoronamento”) degli altri Stati membri e, in parte delle istituzioni. Si tratta del fatto che le istituzioni (Commissione e Parlamento) hanno rinunciato a proprie politiche alternative all’austerity – la Commissione alla fine dell’estate 2009 – senza nemmeno protestare in modo visibile. Gli Stati rispetto ai quali la politica annunciata era manifestamente deleteria, poiché comportava “sacrifici” socialmente insostenibili, si accodavano alle decisioni egemoni o applicandole o, peggio, accettandole formalmente e non applicandole La conseguenza è stata un enorme irrigidimento del sistema quando sarebbe servita flessibilità. Nel 2017 si dovrebbe addirittura iscrivere nel Trattato il “fiscal compact” atto eminentemente politico e improbabilmente costituzionale, e, dunque, irrigidire ulteriormente il sistema.
In questa maniera si è sottratta alla decisione politica una materia che dovrebbe eminentemente esserle affidata e si è dato l’impressione di un sistema puramente burocratico.

La legislazione
Il secondo punto che vorrei trattare è quello della legislazione ordinaria.
Il procedimento di formazione delle leggi europee è piuttosto complesso. Implica una procedura alla quale partecipano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri. Ogni legge è frutto di un negoziato complesso ed esige un impegno politico importante durante tutta la procedura. Ovviamente, si crea un favore di lunga durata per la legge in questione, non tanto per le sue intrinseche qualità, quanto per le peripezie necessarie per modificarla. Questo vale ancora di più quando è necessaria l’unanimità degli Stati. La Commissione, almeno per certe materie, sarà assai reticente a presentare una nuova proposta e il legislatore ad approvarla. E poi basterà che uno o pochi Stati facciano valere il loro desiderio di mantenere la legislazione esistente e ne facciano una bandiera di lotta politica per bloccare o ritardare la decisione eventuale. Questo è avvenuto col cd Regolamento Dublino relativo ai profughi. Esso fu pensato negli anni 90, sulla scorta di problematiche sorte negli anni 80 e definisce regole che concernono un relativamente modesto afflusso di profughi. Oggi, è evidente, la situazione è fortemente mutata. Per ora non si trova la forza politica necessaria a cambiare il regolamento. E, di nuovo, una questione che richiede un’azione politica innovatrice, rapida, adattabile è stretta nella morsa di regole adottate in una prospettiva diversa da quella attuale.
Come affrontare queste rigidità che burocratizzano la politica?
E’ certo che le norme comunitarie, comunque evolva la costruzione europea saranno complesse da adottare e relativamente difficili da modificare. Con 28/27 Stati non è ovviamente facile trovare un consenso anche solo maggioritario. Si tratta di un elemento di rigidità difficile da superare. D’altra parte, il Parlamento europeo che col sistema del voto con una maggioranza politica può effettivamente creare flessibilità, non è per il momento particolarmente determinante nelle decisioni europee, pur avendone le competenze formali. Né, purtroppo, l’incrostarsi di rigurgiti nazionalisti aiuta ad affrontare questa particolarità del sistema europeo. Si badi, i rigurgiti nazionalistici non hanno effetto unicamente sugli Stati che li subiscono direttamente, ma anche sugli altri che vi reagiscono. Si noti, per esempio, sempre la posizione di Renzi che, alle chiusure nazionalistiche di Ungheria ed altri in materia d’immigrazione, reagisce con la minaccia di non dar più loro i soldi.
D’altra parte, proprio in una situazione complessa come quella attuale, è difficile in molte materie non dettagliare le norme che si adottano a causa della “paura” che gli altri Stati ne approfittino; e questo mi pare che talora si verifichi in modo anche più accentuato che nel passato.
Intendiamoci, queste rigidità finiscono, in concreto, per creare difficoltà soprattutto in alcuni settori, mentre in altri vi è un margine di manovra superiore. Ma bastano quei pochi settori – assai importanti – per mettere in crisi l’Unione europea.

Qualche rimedio
In un’eventuale riforma dell’Unione, si potrebbero proporre alcuni rimedi.
In primo luogo, si dovrebbe semplificare il Trattato e fare in modo che si riducano all’essenziale le norme specifiche; il Trattato dovrebbe definire i campi di cooperazione/integrazione europea e le modalità generali per trattarli, ma non includere, appunto, norme specifiche circa le politiche da seguire, che dovrebbero essere lasciate al legislatore. E’ certo che una riforma del Trattato non potrà in nessun caso arrivare alla semplificazione massima; dovrebbe trasformare il medesimo in un atto breve, di tipo costituzionale. O, almeno, limitare al massimo le regole specifiche. O, alla peggio, si dovrebbero prevedere regole decisamente semplificate per la revisione di tali norme. Basterebbe che gli Stati si fidassero gli uni degli altri! Una tecnica specifica contenuta già nel progetto Spinelli consisteva nel prevedere le cd “leggi organiche”. La loro funzione era essenzialmente quella di avviare l’esercizio delle competenze stabilite nel Trattato, fissando i criteri fondamentali per la loro attuazione. L’approvazione di tale legge era relativamente complessa, per garantire una certa stabilità – una cosa positiva – nelle politiche dell’Unione, senza, tuttavia, ingessarle in una norma di Trattato.
Un secondo rimedio riguarda la legislazione dell’Unione. E’ molto difficile immaginare un sistema legislativo semplice e facile per l’inevitabile complessità dell’Unione. Non si potrebbe facilmente immaginare, allo stato attuale, un sistema legislativo che lasci al solo Parlamento europeo la decisione. Anzi, da un po’ di tempo si tende a rendere la procedura ancora più complessa, inserendoci i Parlamenti nazionali. Con l’accordo di una larga maggioranza di Stati (se non di tutti), delle principali forze politiche del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali la rigidità del sistema cresce. Forse si potrebbe riesumare una “scandalosa” proposta britannica formulata alla fine del secolo scorso. Si tratterebbe di fissare una scadenza per le norme, o almeno per alcune di esse, al fine di obbligare il legislatore a rivedere e ad adattare le norme di legge. In sostanza, si creerebbe una sorta di diritto per i “revisionisti” di riaprire il negoziato. Non tutte le regole possono essere soggette a questa procedura, a pena di creare una terribile incertezza giuridica; ma quelle che limitano e condizionano aspetti importanti della politica dell’Unione e degli Stati membri guadagnerebbero ad essere sottoposte ad una clausola di revisione ed eviterebbero, almeno in parte, che organi eminentemente politici quali la Commissione o il Consiglio o, peggio, il Consiglio europeo si vedano confinati, appunto, ad esercitare un ruolo burocratico.
Un terzo rimedio dovrebbe riguardare una pratica più sviluppata del rispetto del principio di sussidiarietà. Certo, se questo principio deve essere considerato uno strumento per consentire agli Stati di sabotare le regole dell’Unione o i suoi principi di libertà e di corretta concorrenza, siamo alla gioia degli antieuropei. Invece, tale principio dovrebbe, com’era nelle antiche definizioni (ma anche in quelle del 900!) essere accoppiato al principio di solidarietà: ciascuno agisce nell’interesse proprio e per il bene comune. La direttiva, concepita proprio sulla base di questi principi è stata radicalmente snaturata, resa “completa” e direttamente eseguibile. Viceversa, essa prevedeva una dialettica fra Unione e singoli Stati per la realizzazione degli obiettivi comuni. La sfiducia reciproca fra gli Stati ha finito per rendere, in molti casi, le direttive così complete da non ammettere alcuna dialettica, se non per via d’infrazione. Il principio di sussidiarietà serve anche a tenere in conto ed a preservare differenze che non danneggino il sistema nel suo complesso o gli altri Stati. Servirebbe anche ad evitare la caricatura delle norme comunitarie – si veda il formaggio francese senza batteri o la pizza senza forno a legna! D’altra parte non si pensi che le norme ultra dettagliate siano frutto d’insipienza burocratica: esse corrispondono ad interessi di grande portata che le influenzano e che tendono a realizzare dei fini che non sono necessariamente quelli dell’Unione.
Il quarto rimedio dovrebbe, appunto, essere quello della limitazione dell’influenza delle lobbies. Esse hanno preso piede in modo esagerato nel sistema dell’Unione, non solo per compiacenza di politici e funzionari (non sarebbe certo un’anomalia nella sfera normativa e politica di tutto il mondo!), ma anche per il desiderio, chiaramente espresso nel Trattato almeno fin da Maastricht, di rendere più democratica e trasparente l’Unione attraverso il rapporto con la “società civile”, della quale gli attori più forti sono, però, proprio le lobbies. Così siamo arrivati in piena crisi ad includere nel comitato consultivo che doveva aiutare a preparare la legge sui derivati solo rappresentanti di grandi banche, per l’essenziale americane, terribilmente impelagate nella pratica dei derivati. Eliminare il sistema delle lobbies sembra improbabile; tuttavia si possono introdurre forti elementi di trasparenza e di concorrenza. Il Parlamento europeo lo fa attraverso il sistema delle audizioni – non sempre perfetto, ma pubblico e “competitivo”; esiste poi un Comitato economico e sociale europeo la cui funzione sarebbe proprio quella di mettere sul tappeto le proposte provenienti dalla società civile. Infine, la Commissione dovrebbe essere obbligata a dare più pubblicità alle sue necessarie relazioni con i gruppi d’interesse ed a considerare egualmente importanti rappresentanti di interessi e i rappresentanti di “valori” della società civile. Certo, è ovvio che tanto presso la Commissione che preso il Parlamento o il Consiglio vi saranno azioni di gruppi d’interesse meno pubbliche o financo corruttive. Ma, se il sistema è corretto e ben definito, rientreranno nel campo delle patologie, eventualmente da reprimere.
Infine, vi dovrebbe essere un ricorso maggiore al sistema delle “strategie”. Non sempre hanno successo (strategia di Lisbona, colpita dal massimo della sfortuna!); talora lo hanno (strategia energetica). Esse comunque hanno la caratteristica di richiamare il principio di azione solidale, di sussidiarietà positiva, da parte dell’Unione e degli Stati membri, di avere un grado elevato di flessibilità e una durata prefissata. Le norme e le politiche che le mettono in opera seguono un po’ questa struttura.
E’ evidente che questi rimedi tecnici non saranno capaci da soli di affrontare una crisi dell’Europa e dell’UE che ha radici profonde, che si scontra con un mondo complesso al quale non siamo ancora riusciti ad adattarci pienamente, che pone questioni di democrazia e di ritorno a storie del passato, quali i nazionalismi o le derive autoritarie, che rimesta nel calderone di valori contraddittori, senza riuscire a trasformarli in principi costituzionali, che vede delle classi politiche incerte e per ora incapaci ad ancorarsi a prospettive politiche precise. Penso, tuttavia, che includere nella riflessione sul futuro dell’Unione anche elementi di qualche tecnicismo costituzionale non sia inutile.

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