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La Chiesa e il possibile ingresso della Turchia nell’UE

vaticano-turchiadi Roberta Ferrara

È dal 1963 che la Turchia si è vista riconoscere la “vocazione” a diventare membro dell’Unione, ma i negoziati sono e continuano ad essere lunghi e complessi, sottoposti a una serie di clausole e di verifiche senza precedenti. Un vero e proprio “negoziato senza fine”, dall’esito non affatto scontato.
La diplomazia vaticana fino ad oggi ha evitato di prendere una posizione ufficiale sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, rimanedo piuttosto in una posizione di neutralità. Ciononostante la Santa Sede non ha celato nel corso degli anni i suoi dubbi relativi ad un allargamento dell’Unione ad un Paese musulmano, avviando profonde riflessioni sulle radici cristiane del Vecchio continente, sull’ identità europea e sul rapporto con l’Islam.
Papa Giovanni Paolo II si spese in prima persona per l’introduzione del riferimento alle radici cristiane nel Preambolo costituzionale dell’UE, individuando nelle “radici cristiane” dell’Europa l’unica anima o collante capace di contrastare la crisi di valori dell’Occidente e tenere insieme genti, storie e tradizioni in alcuni casi molto diverse. Il Cristianesimo secondo Papa Wooytila “ha dato forma all’Europa, imprimendovi alcuni valori fondamentali; la modernità europea stessa che ha dato al mondo l’ideale democratico e i diritti umani, attinge i propri valori dalla sua eredità cristiana”. Più che come luogo geografico ha scritto Woytila, “l’Europa è qualificabile come un concetto prevalentemente culturale e storico”. Mantenendo una posizione neutra rispetto alla Turchia in Europa, in effetti, egli si mostrò più favorevole e propenso all’allargamento dell’Unione ai Paesi dell’Est, che secondo il Papa suggellava “il superamento di una innaturale divisione”.

La posizione ponderata della Chiesa fu presentata alla televisione turca Ntv dall’arcivescovo Edmond Farhat, Nunzio apostolico ad Ankara, il quale sostenne che “il Vaticano non è contrario all’adesione della Turchia all’Unione europea, e non vede l’Unione come un club cristiano, ma desidera che la Turchia completi le riforme nel campo delle libertà religiosa e personali, prima di divenire membro dell’Unione”. Con quelle parole l’arcivescovo riassumeva le attese della Santa Sede, che erano state esposte ai membri dell’Unione con due memorandum datati luglio e settembre 2002. Nel primo si richiedeva che venissero poste quali condizioni vincolanti per Ankara il rispetto della libertà religiosa e dei diritti umani. Il secondo segnalava l’esigenza che le strutture delle Chiese (diocesi, parrocchie, opere varie) ottenessero riconoscimento giuridico e fossero autorizzate a possedere immobili, a costruire luoghi di culto, ad aprire scuole. Cauto anche l’intervento dell’allora presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Ruini durante un incontro con i giornalisti, a conclusione dell’assemblea della CEI del maggio 2003: in quel caso Ruini invitò a “ponderare bene”, riconoscendo l’interesse all’ ingresso da parte dei cristiani di quel Paese, ma segnalando che “la Turchia, pur avendo una costituzione laica, è una nazione nei fatti fortemente islamica, molto popolosa e con una dinamica demografica molto positiva”.
Il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Ue diventa più vivace quando al soglio pontificio salì il cardinale Joseph Ratzinger, dal 19 aprile 2005 Benedetto XVI.

Da cardinale, Ratzinger aveva più volte in precedenza esternato le sue perplessità sull’ingresso della Turchia nell’Unione. In un’intervista rilasciata al Figaro Magazine nel 2004, l’allora cardinale dichiarava che “l’Europa è un continente culturale e non geografico e le radici che hanno permesso la sua formazione sono quelle del cristianesimo. In questo senso la Turchia ha sempre rappresentato nel corso della storia un altro continente, in contrasto permanente con l’Europa. Nei secoli ci sono state le guerre con l’Impero bizantino, la caduta di Costantinopoli, le guerre balcaniche e la minaccia per Vienna e per l’Austria”. Per Ratzinger, quindi, “sarebbe un errore identificare i due continenti: significherebbe una perdita di ricchezza, la scomparsa della cultura in favore dei benefici in campo economico. La Turchia, che si considera uno stato laico, ma fondato sull’Islam, potrebbe tentare di dar vita a un continente culturale con alcuni Paesi arabi vicini e divenire così la protagonista di una cultura che possieda la propria identità, ma che sia in comunione con i grandi valori umanisti che noi tutti dovremmo riconoscere”. Pertanto, al posto di una completa adesione all’Ue, Ratzinger immaginava per Ankara “forme di associazione e di collaborazione stretta e amichevole con l’Europa, che permetterebbe il sorgere di una forza comune che si opponga a qualsiasi forma di fondamentalismo”. L’Europa e la Turchia sarebbero quindi divise non solo da contrapposizioni storiche del passato, ma anche da radici culturali non fondibili tra loro: la Turchia è infatti per Ratzinger “uno stato, o forse meglio, un ambito culturale, che non ha radici cristiane, ma è stato influenzato dalla cultura islamica. Atatürk ha poi cercato di trasformare la Turchia in uno stato laicista, tentando di impiantare il laicismo maturato nel mondo cristiano dell’Europa su un terreno musulmano”. Certo, “secondo la tesi della cultura illuminista e laicista d’Europa, soltanto le norme e i contenuti della stessa cultura illuminista potranno determinare l’identità dell’Europa e, di conseguenza, ogni stato che fa suoi questi criteri, potrà appartenere all’Europa”: secondo questo ragionamento quindi, nulla impedisce che la Turchia appartenga all’Unione, nella misura in cui partecipi alla sua ideologia laicista. Ma per Ratzinger l’Unione europea non è definibile in questi termini: essa è, o dovrebbe essere, “l’unione di stati laici e non confessionali, fondati però su valori morali di ispirazione cristiana e su un’identità storica e culturale cristiana”. Perciò ribadisce il cardinale, in un discorso pronunciato agli operatori pastorali della diocesi di Velletri il 18 settembre 2004, “l’ingresso della Turchia sarebbe antistorico”.

Le posizioni di Ratzinger suscitarono apprensione e anche avversione nell’opinione pubblica turca. Un allarme rafforzato dopo il celebre discorso che Papa Benedetto XVI tenne all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006, durante la prima visita apostolica nella sua Baviera.
In quell’occasione Benedetto VXI fece una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, dalla quale poteva evincersi il messaggio che per il Papa cattolico l’Islam è una religione violenta, votata alla guerra santa: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava. […] Dio non si compiace del sangue. Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. Una frase che, estrapolata dal suo lungo e complesso contesto, scosse profondamente il mondo islamico e suscitò una vera bufera internazionale. Il Pontefice intervenne in prima persona per esprimere il suo rammarico e placare gli animi. Durante l’Angelus del 17 settembre il Papa si disse vivamente rammaricato dell’accaduto, sottolineando che il breve passo del discorso, ritenuto offensivo per la sensibilità dei credenti musulmani, era una citazione di un testo medioevale, che non esprimeva in nessun modo il suo pensiero. “Spero che questo valga a placare gli animi e a chiarire il vero significato del mio discorso, il quale nella sua totalità era ed è un invito al dialogo franco e sincero, con grande rispetto reciproco”. Nonostante i malumori che aleggiavano nel mondo islamico, l’imminente visita del Papa in Turchia, prevista per fine novembre, non fu sospesa, e le polemiche si sopirono con la geniale intuizione della preghiera comune del Papa con il Muftì di Istanbul nella Moschea Blu. Quanto all’ipotetico ingresso della Turchia nell’Unione Europea Erdoğan successivamente riferì che dal Pontefice era arrivata la “benedizione”: “Come è a lei ben noto – sostenne Erdoğan riportando la frase del Papa – noi non siamo dei politici, ma auspichiamo l’accesso della Turchia all’Unione Europea”. In realtà, un’ora dopo il portavoce del Vaticano, padre Federico Lombardi spiegava che la Santa Sede “non ha il potere né il compito specifico, politico, di intervenire sull’ingresso nell’Ue poiché non le compete, tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo e di avvicinamento e di inserimento in Europa della Turchia, sulla base di valori e principi comuni”. Il sottile distinguo che padre Lombardi fece tra ‘Unione Europea’ e ‘Europa’ sottolineava la posizione alquanto neutrale e cauta del Vaticano, attento a non farsi trascinare troppo in un campo minato che non gli appartiene. Di ritorno dal viaggio il Pontefice, infatti, non si pronunciò sull’argomento, ma si limitò ad esprimere l’auspicio che “la Turchia potesse essere un ponte di amicizia e di fraterna collaborazione fra l’Occidente e l’Oriente”. Anche durante la delicata missione a Cipro, Ratzinger ha evitato ancora una volta di prendere posizioni ufficiali riguardo l’ingresso della Turchia nell’ Ue, ma ha ribadito, senza alcun riferimento di natura politica, l’importanza dell’apertura all’Islam per “preparare gli animi per essere capaci di compiere i passi politici necessari”.

La diplomazia vaticana sembra non aver cambiato rotta nemmeno con l’elezione al soglio pontificio di Papa Francesco. Emblematica al riguardo la risposta del Papa durante la conferenza stampa di ritorno del suo viaggio apostolico in Turchia (novembre 2014), ad un giornalista che gli chiese se aveva parlato con il presidente Erdoğan dell’entrata della Turchia nell’Ue: “No, di questo tema non abbiamo parlato con Erdoğan. È curioso: abbiamo parlato di tante cose, ma di questo non abbiamo parlato.” La risposta di Papa Francesco diventa così il sigillo in cera lacca di una pratica che sembra ormai derubricata sia dalla cancelleria vaticana sia da quella turca. Piuttosto il Papa si è soffermato sull’importanza di garantire realmente la libertà religiosa e di espressione. Se da un lato Papa Francesco ha elogiato Ankara per il suo aiuto umanitario a “così tanti rifugiati dalle zone di conflitto”, dall’altra ha ribadito che “è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani – tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione – godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri. Perché queste, se “efficacemente garantite a tutti, stimoleranno il fiorire dell’amicizia, diventando un eloquente segno di pace”. Un discorso coraggioso, basato sul principio che “una pace solida” non può che essere “fondata sul rispetto dei fondamentali diritti e doveri legati alla dignità dell’uomo”. Anche il silenzio di Erdoğan sulla questione UE è emblematico, diversamente dalla precedente visita papale, avendo nel frattempo rimodulato la propria strategia di espansione, che oggi sembra volgere a Oriente piuttosto che a Occidente.

Le relazioni diplomatiche fra Santa Sede e Ankara continuano però a vacillare. Questa volta a provocare lo scontro diplomatico è stata la spinosa questione del genocidio armeno, non ancora riconosciuto dal governo turco. Durante il suo viaggio apostolico in Armenia nel giugno scorso, nel discorso alle autorità civili, Papa Francesco ha profondamente condannato il genocidio armeno che “inaugurò il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso reso possibile da aberranti motivazioni raziali, ideologiche o religiose che ottenebrano la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli.” Le parole di Papa Francesco hanno subito suscitato la reazione del governo turco che ha ritirato il suo ambasciatore presso la Santa Sede e ha convocato il Nunzio Apostolico di Ankara come forma di protesta. Per il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu, le parole del Pontefice sono “senza fondamento e non valgono nulla per i turchi e la Turchia”. “Papa Francesco ha la mentalità da crociate” ha, inoltre, dichiarato il vice primo ministro Nurettin Canikli. Immediata la precisazione del portavoce vaticano, padre Lombardi, il quale ha sottolineato che “il Papa non sta facendo crociate, nessuna parola espressa da Francesco durante il suo viaggio in Armenia ha mostrato alcuna ostilità verso la Turchia, piuttosto i suoi discorsi sono stati infusi di inviti all’Armenia e alla Turchia a costruire ponti di pace e di riconciliazione”.
Assunta una posizione di neutralità nei confronti dell’entrata della Turchia nell’Ue, la Chiesa non nasconde però le sue perplessità al riguardo. Sul fronte turco, la diplomazia vaticana sembra dunque muoversi su un duplice binario. Da un lato tiene conto delle paure e delle speranze dei cattolici e delle altre minoranze religiose della Turchia. Il Vaticano sa bene che la Turchia è stata una delle aree più vitali del Cristianesimo dei primi secoli e ancora all’inizio del Novecento, dopo secoli di dominio ottomano, manteneva forti impronte di questa sua identità cristiana. Impronte che però sono state quasi annientate dalla pressione congiunta del laicismo esasperato di Atatürk e della rinascita islamista infine arrivata al potere con Erdoğan. Dall’altro lato la Chiesa è consapevole del grosso impatto che avrebbe l’ingresso della Turchia in un’Europa che ha ormai abdicato alla propria identità cristiana. La Santa Sede pare dunque più propensa a privilegiare una via intermedia, una partecipazione prettamente economica ma non la piena adesione di un grande Paese musulmano.

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